Cinema

Festival di Venezia, Finalmente l’alba secondo italiano in concorso. Saverio Costanzo dedica il film al padre Maurizio

di Davide Turrini

Camicetta sbottonata al provino o camicetta chiusa? Bisogna avere coraggio nella vita. E non è detto che nel cercare se stessi la frivola audacia paghi più dell’apparente ritrosia. La pensa così Saverio Costanzo. E ce lo mostra in una sequenza del brulicare di Cinecittà nel 1953 dopo una ventina di minuti di Finalmente l’alba, secondo film italiano in Concorso a Venezia 80. Sorta di precipitato cinematografico tra Bellissima, La Dolce vita e Fuori orario che si adagia nel tradizionale cupo e oscuro mood/marchio di fabbrica del regista romano. E non lo diciamo con ironia, anzi. La cifra emotiva che Costanzo trasmette nei suoi film è proprio questo introverso e limaccioso dolore dei suoi personaggi nel comprendere chi sono veramente in una società che li tiene ai margini o li fa specchiare in false icone o idealità. Qui è Mimosa (Rebecca Antonaci) a percorrere casualmente in una notte una sorta di trasformazione esistenziale verso l’età adulta. La 20enne, promessa sposa di un tondeggiante e sudato poliziotto, aveva accompagnato mamma e la procace avvenente sorellina al provino nei celebri studi di produzione di Cinecittà all’apice della fortuna internazionale per un kolossal prodotto dagli americani e ambientato nell’antico Egitto.

La sorella si sbottona la camicetta (“ma che le ancelle egizie hanno il seno coperto?”, afferma il romanissimo assistente di scena di fronte ai tentennamenti) e Mimosa no, ma il suo ultimo gesto di protezione e ammirazione verso la sorella (la cerca da intrusa tra gli studios) la porta ad un’immersione psicofisica, lontano dalla famiglia per circa 24 ore, improvvisamente e involontariamente alla ricerca di se stessa. La grande star Josephine Esperanto (Lily James), che nel peplum a Cinecittà interpreta una regina egizia simbolo di emancipazione femminile, ha intravisto Mimosa in un corridoio e la vuole subito truccata da ancella sul set, posizionata di fianco alla macchina da presa per guardarla e poter recitare al meglio. Tempo di ammirare la diva da vicino e Mimosa viene prima omaggiata di un raggiante vestito da sera, poi raccolta con entusiasmo dalla Esperanto, da Sean Lockwood – il giovane coprotagonista maschile che filtra con lei (Joe Keery) – e dal gallerista, qui elegante autista, Priori (Willem Dafoe).

Il viaggio attraverso la notte di Mimosa inizia in una trattoria sull’Appia antica e poi nel labirintico e torbido villone dove il jet set si gonfia di sciccose apparenze, intellettualismo radical, sesso, cocaina e soffusa prepotenza del denaro. Inutile dire che in quell’antro di rasi scuri, specchi sinistri e forme tra stucchi antichi e art decò (la fotografia magnetica è di Sayombhu Mukdeeprom e le scene misteriosamente statiche di Laura Pozzaglio, Mimosa assaggerà l’intensità del desiderio e la paura dell’ignoto. Costanzo ha molto coraggio nel prendersi tempi di composizione dilatatissimi e corridoi di scrittura dove pause e sguardi interminabili (si veda la “perfomance” poetica muta di Mimosa davanti agli ospiti) sostituiscono spesso le parole. Del resto Finalmente l’alba prima si apre con apparente ingenuità “dentro” a un film neorealista, che le sorelle protagoniste stanno vedendo al cinema con mamma, poi si “sostituisce” simbolicamente nello sguardo registico del peplum che gli americani stanno girando a Cinecittà, infine si dilata più classicamente nel ricomporre fuga individuale e tunnel notturno.

Mimosa è un Alice che comprende il senso della meraviglia, un Cappuccetto Rosso indifeso attratto dal lupo, una Cenerentola che non dispone più di carrozze per tornare a casa. La macchina da presa di Costanzo quasi accarezza il viso e il mezzo busto della protagonista con piccole carrellate laterali come ad estrarla dalle situazioni più o meno pericolose che la notte in villa le riserva più volte. E come se non bastasse sul finale, mentre il sole sorge, emerge con naturale gradualità il disfacimento del riflesso iconico della star verso il quale la protagonista aveva riposto cieco sentimento e fiducia. La malia di Finalmente l’alba c’è tutta. Pesante per alcuni, ma indubitabilmente traccia di un cinema sofferto che non si dimentica facilmente. Saverio Costanzo dedica il film a papà Maurizio e la qual cosa, visto cosa racconta il film, commuove.

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