Cinema

Barbie è un blob di banalità, furbate e luoghi comuni fornito dal reparto cultura alta di Hollywood

di Davide Turrini

Barbie è uno dei film più brutti della storia. Una raccapricciante, inconcludente, ridicola melassa colorata di rosa gocciolata dal reparto cultura alta di Hollywood e gettata in maniera disorganica e rabberciata nel calderone del mainstream più demente. Barbie non è solo il paradiso del glitterato di seconda mano al posto dello sforzo creativo di un immaginario (le casine senza pareti e i plastici zuccherosi alla Willy Wonka, ma che davvero?), ma si macchia dal primo all’ultimo istante di un peccato infamante, di un difetto memorabile da annali degli sceneggiatori della SAG da tre mesi in sciopero: non ha una storia credibile e/o accattivante. A Barbieland tutto procede secondo copione della Mattel. Decine di Barbie multicolored governano il villaggetto rosato vivendo ruoli professionali specializzati e apicali del mini mondo artificioso, in cui i tanti Ken fanno da comparse mai insidiose: Barbie presidente, Barbie magistrato, Barbie Nobel della letteratura, Barbie fontaniere (ah pardon, un lavoro così umile non è previsto). Poi c’è Barbie stereotipo (Margot Robbie), la matrice di tutte le bamboline dell’azienda: bionda, sorridente, con i talloni dei piedini sollevati perché abituata alle scarpe col tacco. Solo che Barbie stereotipo una mattina si sveglia con la luna storta perché ha fatto sogni di morte, le puzza l’alito, le è sbucata la cellulite e soprattutto i talloni non stanno più dritti facendole tenere il piede piatto.

Sarà Barbie stramba (perché ci son anche Barbie incinta, Barbie sovrappeso, Barbie in carrozzina) a spiegarle questa sorta di doppio mondo, dove gli umani condizionano e costruiscono il destino delle bambole di Barbieland. A quel punto Barbie stereotipo e Ken nazibiondo (corsivo nostro per l’incommentabile presenza di Ryan Gosling) intraprendono un viaggetto verso il mondo umano dove lei troverà la donna, segretaria negli uffici Mattel, che l’ha pensata e disegnata male facendole sorgere pensieri negativi; mentre Ken scoprirà su dei libri il concetto di patriarcato e correrà subito a Barbieland per instaurare il Kendom, regno in cui le Barbie sono affettuosamente sottomesse. Qualche ora dopo tornano a Barbieland sia Barbie stereotipo che la segretaria con la figlia, inseguite a loro volta dal presidente della Mattel (Will Farrell qui in versione Elf ma ancor più scemo) e dal codazzo del cda aziendale intento a far tornare l’ordine (maschilista?) a Barbieland. Già qui una persona normale con tutti gli sforzi di decifrazione di metafore, simbolismi, parallelismi, sottotesti della cultura pop statunitense, farebbe fatica a rimanere a galla senza correre al parcheggio del cinema. Ma la regista Greta Gerwig, sceneggiatrice con il marito (sacrilegio!) Noah Baumbach, si premura di un ulteriore triplice carpiato zeppo di clichè e stereotipi di una sterile fiacca guerra tra i sessi. Visto che i Ken sono dei gonzi che pensano solo al proprio narcisismo dominante, Barbie stereotipo con le altre Barbie e le due donne ospiti del mondo umano gli giocano lo scherzone dell’ammaliarli fingendosi innamorate di ognuno di loro per poi detronizzarli da tutti i ruoli di comando che si erano presi. Prima che le Barbie tornino trionfalmente a comandare c’è spazio per dei terrificanti numeri musicali dove ballano tutti i Ken (per la legge del ribaltone) e per una sc(enett)a di scontro con finte armi di plastica sulla spiaggia tra due fazioni di Ken modello Salvate il soldato Ryan incontra Troy.

Ecco Barbie è questo blob di banalità, furbate, luoghi comuni, appiccicati con lo sputo del montaggio e la pazienza delle fan attirate, a livello di massa, più dalla resa cinematografica (inesistente) di un brand che dal messaggio femminista anti-uomo (la cultura alta che si impone tra i villici). Detto che del peregrinare del personaggio di Ferrell si perdono senso e tracce (perché ce l’hanno messo? Dovere aziendale?) di Barbie si percepisce più il vano e cieco sforzo di tenere in piedi due ore sfinenti di racconto che la linearità di un punto di vista (etico?) sulla questione socio-antropologica femmina vs. maschio. Vedendo Barbie, inoltre, si evidenziano alcune considerazioni sparse: il rapporto tra Gerwig e Baumbach nella vita reale deve essere un inferno (non solo per lui, sia chiaro); nell’epoca gender fluid la castrante asessualizzazione sta per soppiantare (ideologicamente parlando) il flusso naturale della libido; continuare a raccontare alle ragazze che esiste una sorta di magica sorellanza orizzontale tra donne cancellando dall’orizzonte del pensiero la conflittualità socioeconomica alto/basso è criminale; ma che soprattutto il cinema, il buon vecchio cinema procacciatore di sogni e di storie è diventato un orpello insignificante e indistinguibile da qualsiasi mezzo comunicativo estroverso e modaiolo dell’oggi. Il famigerato trailer che citava spudoratamente 2001 di Kubrick (sono i primi minuti di film) a confronto dell’intera operazione Barbie diventa un saggio di cinematografia postmoderna.

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