Una vita fatta di sacrifici, lavoro, pochi soldi ma tanta passione per la musica. Un percorso di vita dal dopoguerra ad oggi per arrivare al coronamento del traguardo dei 60 anni di carriera. Abbiamo incontrato Beppe Carletti dei Nomadi che ci ha presentato non solo il 38esimo album in studio della band “Cartoline da qui” (con contributi di Ligabue, Neri Marcorè, Francesco Guccini e Giorgio Faletti), ma ha raccontato della sua vita, del coraggio di non mollare mai e del perché “i giovani di oggi si sentono soli, ma hanno solo bisogno di affetto”. Un album ricco e ben prodotto, il singolo firmato da Ligabue che dà il titolo al disco è radiofonico, che avrebbe meritato una presentazione importante come il palco del Festival di Sanremo. “Ma non si può piacere a tutti, però un premio alla carriera ce lo saremmo aspettati”, ha affermato Carletti a FqMagazine. Ci saranno due grandi momenti di festa e musica per celebrare questo importante traguardo: 3 giugno a Novellara e il 10 giugno a Riccione.

Com’è nata la collaborazione con Ligabue?
Luciano lo conosco da anni, da quando non era ancora nessuno e veniva nel mio negozio di strumenti musicali. Aveva scritto un pezzo per noi e con il suo manager un giorno ci ha portato la musicassetta col brano. Dopo averlo ascoltato, siamo stati sinceri e gli abbiamo detto che non reputavamo che fosse adatto a noi ed era giusto che lo tenesse lui. Siamo rimasti in ottimi rapporti anche nel corso degli anni.

Quando è arrivato il momento giusto?
Quando ci siamo rivisti al suo Campovolo, nel 2012, la prima cosa che mi ha detto Luciano è stata: ‘Avevi ragione tu, avevo sbagliato musicassetta’. Siamo scoppiati a ridere. Un amico comune ci ha contattati per dirci che Luciano aveva un’altra canzone per noi. L’abbiamo ascoltata in studio con Ligabue e ci siamo commossi perché è proprio la nostra storia, un brano dedicato ad Augusto.

C’è anche Guccini che ha scritto due sonetti per voi. L’idea da chi è partita?
Con Francesco ci conosciamo da almeno 60 anni e ci siamo visti spesso. Un giorno mentre chiacchieravamo, gli ho chiesto se gli andava di replicare un esperimento già fatto nel ’67. Ossia di darci un sonetto con un tappetto sonoro sotto. ‘Hai fretta?’, mi ha chiesto. Gli ho risposto di no, avevamo ancora qualche settimana per chiudere il disco. Mi ha spedito i testi dopo 4 giorni. Neri Marcorè poi li ha letti e li abbiamo incisi.

Come sono i vostri rapporti?
Abbiamo un rapporto stretto, pulito e onesto. Anni fa avevamo un progetto live congiunto da fare negli stadi. Una idea bellissima che mi sarebbe piaciuto realizzare, purtroppo però non è stato possibile realizzare questo tour perché Francesco non se l’è sentita. Però è venuto spesso ai nostri concerti per un saluto sul palco. Non ci sono mai state incomprensioni tra noi.

Come hai conosciuto Faletti?
Giorgio Faletti l’ho conosciuto nel 2010. Non ci frequentavamo ma c’era una stima reciproca. Ci siamo subito ‘presi’ nel backstage della rassegna ”O’ Scià’ che Baglioni organizzava a Lampedusa. Abbiamo chiacchierato ed è scattato il feeling. Sembrava che ci conoscessimo da una vita, la sua disponibilità è stata immediata. Non a caso ci è arrivata, con l’appoggio della moglie, questa bellissima canzone scritta per noi. Un piccolo gioiello del bellissimo patrimonio di Giorgio.

Nel brano di Giorgio Faletti ci sono dei versi: “I ragazzi del ponte hanno tutti un difetto, una rabbia che a volte è un bisogno d’affetto”. È così?
Sì. Mi sembra che i ragazzi di oggi abbiano tutto, ma a loro manca l’affetto. Li vedi lì tutti baldanzosi, poi fai due chiacchiere con loro (mi capita spesso, dopo i nostri concerti) e scopri che hanno materialmente tutto dai cellulari alle macchine, ma a loro manca proprio il calore umano.

Da cosa dipende?
Io, alla loro età, non avevo niente dal punto di vista materiale, ma avevo tutto. Ai miei figli ho cercato di insegnare le cose che, secondo me, sono giuste e cioè il rispetto verso se stessi anche verso gli altri. Non voglio incolpare i genitori, ma è un dato di fatto che la nuova generazione si senta triste e sola, si sentono più forti nel branco, ma la verità è che sono solo più deboli.

Una debolezza dovuta a cosa?
Dipende tutto dal mondo in cui viviamo. Se ci guardiano intorno è un disastro, in tutti i sensi. Nelle persone si è perso il senso di umanità, al giorno d’oggi c’è un egoismo diffuso, che non era così radicato ai miei tempi.

Che nonno sei?
Coi miei nipoti sono abbastanza severo. A tavola la regola principale è che devono scomparire i telefonini. Loro mi dicono ‘Oh ma come sei un peso!’, a me non interessa. Sono un martello pneumatico su queste cose. Loro devono capire che lo faccio solo per loro. A quell’età si è ancora in tempo per raddrizzare la ‘pianta’.

“Noi non siamo eroi, siamo solo uomini che non mollano mai”, cantate in “Gente di parola”. È il vostro mantra?
Sì. Questa canzone la sento molto mia perché racconta del fatto che non ho mai mollato in 60 anni di cammino musicale su e giù dal palco, per citare Ligabue. Il non mollare mai me l’hanno insegnato i miei genitori, assieme al rispetto. Sono nato e cresciuto così. Ti racconto un piccolo aneddoto. Avevo 15 anni e suonavo in una piccola band che poi però si è sciolta.

E cosa è successo in quel momento?
In molti in paese dicevano che non ce l’avrei mai fatta, ma li ho sfidati: ‘Non ci penso affatto a mollare’. Ho sempre lottato duro e con determinazione per quello che amo fare. Inoltre non potevo deludere i mie genitori che avevano fatto tanti sacrifici per me, quando hanno potuto mi hanno supportato nella musica, comprandomi anche la fisarmonica e il piano.

Quanto ha contato il tuo carattere?
Molto. Sono un testone non lo nego. Sono fiero di quello che ho fatto. Sognavo di suonare e vivere di musica sin da ragazzino. L’ho fatto sempre senza pensare al successo e ho suonato ovunque dalle balere alle feste in piazza che amo moltissimo perché in quel momento sei dio per la folla, composta da adulti e bambini.

Che adolescenza hai avuto?
Non mi fermavo mai perché, come tanti miei coetanei, andavo a lavorare in fabbrica. Mi sono accorto di non farcela e quando ho detto a mia madre ‘basta non lavoro più, voglio solo far musica’, per tutta risposta mi ha mandato a scaricare legna dal camion. Dopo la scuola, invece, di finire in mezzo ad una strada io e i miei compagni di scuola, andavamo tutti a lavorare d’estate.

Qual era l’insegnamento di vita?
Il concetto era che bisognava comunque lavorare sodo e che niente ti veniva regalato. Ad oggi, posso con orgoglio dire che in questi 60 anni di carriera non mi è stato mai regalato niente da nessuno.

La nuova generazione come si approccia al sacrificio?
Rispetto alla mia generazione e ai miei tempi molte cose sono cambiate, anche nel mondo del lavoro. Anni e anni fa c’era molta meno burocrazia per noi ragazzini che volevamo lavorare. Era tutto molto più facile. Il fatto di avere qualcosa da fare era importante, una volta finite le scuole fino a settembre si poteva andare a vendemmiare, faccio un esempio, e mettere qualche soldino da parte. Poi le cose sono cambiate, è cambiato il mondo.

Perché, secondo te?
Oggi i genitori sono più permessivi e piuttosto mandano in vacanza i figli per tutta l’estate. Noi eravamo i figli del dopoguerra, non c’erano droghe, spinelli, fumavamo le sigarette emulando le grandi star del cinema americano come Bogart, se ci penso ancora oggi mi viene da ridere.

Nostalgia dei vecchi tempi?
Ma no! Però mi piacerebbe che i miei nipoti potessero vivere quello che ho vissuto io. Avevo molta più libertà di loro, uscivo la mattina e rientravo anche a sera tardi. Non c’erano pericoli, non c’erano le molestie… Certo, ho avuto anche la fortuna di vivere in un paesino, girare, suonare nelle balere tra Lombardia, Emilia e la Toscana, conoscere tantissime persone e con loro far serata in pizzeria. Eravamo curiosi, abbiamo vissuto tante esperienze.

Come mai non siete andati al Festival di Sanremo per festeggiare i 60 anni di carriera con un album inedito, pronto a uscire?
Non si può piacere a tutti e non me ne sono fatto una malattia. In fondo a Sanremo ci siamo andati due volte come ospiti. Mi sarebbe piaciuto un riconoscimento alla carriera, senza nulla togliere a Peppino Di Capri. Siamo un gruppo che ha portato avanti una storia e al nostro pubblico sarebbe piaciuto vedere un premio su quel palco un riconoscimento. Ora per i festeggiamenti, andiamo di cinque anni in cinque anni e aspettiamo. Abbiamo tempra, non so però se riusciremo ad arrivare a 80 anni di carriera (ride, ndr).

A proposito di cartoline, se dovessi scegliere una cartolina che racconti i Nomadi, quale sarebbe?
Una cartolina che raffiguri la musica, il ballo, le balere, le piazze e i nostri palchi importanti. Mi reputo fortunato perché sono ancora qua che faccio una cosa che amo tantissimo. Abbiamo fatto una bella gavetta ed è per questo che ai giovani di oggi che vogliono intraprendere questa carriera dico: non pensate subito al successo perché rimarrete delusi. Abbiate cura invece di proteggere e portare avanti chi siete veramente. Se tutti vivessimo di una nostra passione, saremmo tutti felici.

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