Quattro anni di studio etnografico sulle frontiere, un’immersione durata mesi che gli autori, ricercatori del Laboratorio di sociologia visuale dell’università di Genova, hanno fatto da Lampedusa e le frontiere esterne, compreso il Mediterraneo Centrale, a quelle interne che dividono l’Italia dal resto d’Europa, da Trieste a Ventimiglia a Claviere e Briancon. Una ricerca fuori dalle sedi universitarie e in mezzo ai migranti e ai solidali che cercano di sostenere la libera circolazione delle persone, mentre diversi governi comunitari sembrano voler rialzare definitivamente il muro dei controlli ai confini che, almeno all’interno dell’area Schengen, sembravano un retaggio del triste passato degli opposti nazionalismi di un Europa divisa. “Nel libro ‘Borderland ItaliaRegime di frontiera e autonomia delle migrazioni’ abbiamo voluto restituire a chiunque volesse saperne di più l’esperienza che abbiamo raccolto in questi anni di frontiere – spiegano i curatori Jacopo Anderlini, Davide Filippi e Luca Giliberti – abbiamo assistito, in particolare durante la pandemia, a nuove ‘sperimentazioni’ sulla pelle dei migranti, che subiscono violenze fisiche durante i loro viaggi, simboliche quando arrivati in Italia vengono razzializzati (inferiorizzati) attraverso percorsi che producono esclusione, e infine violenze economiche, se si pensa che buona parte di loro finiscono per essere assorbiti dal mondo produttivo ricoprendo ruoli sottopagati se non proprio sfruttati con forme disumane”.
Tra le figure chiamate in causa dal dibattito sull’immigrazione anche quelle di “scafisti” e “passeur”: “Vengono criminalizzati e presentati come capri espiatori, quasi come fossero loro la causa delle migrazioni e non l’effetto perverso dell’impossibilità di arrivare regolarmente in Europa – spiega Luca Giliberti, ora ricercatore all’Università di Parma – con questa raccolta cerchiamo di dare uno sguardo più onesto e realista a quello che davvero avviene alle frontiere, luoghi centrali nel discorso europeo sulle migrazioni”. Ma nel fare ricerca sul campo, in questi anni, il Laboratorio di sociologia visuale dell’università di Genova si è più volte trovato a testimoniare non solo gli aspetti politici e legati alla militarizzazione delle frontiere, ma anche il fenomeno dei movimenti solidali che si creano proprio in contrapposizione alle politiche di gestione dei flussi che, sui confini, spingono ai margini centinaia di persone respinte e disperate.
L’immagine che viene fuori è quella di un movimento eterogeneo (dagli attivisti agli operatori delle ong passando dai volontari e dagli scout per arrivare ad alcuni amministratori locali) che, controcorrente, difende la libertà di circolazione e i diritti delle persone in viaggio mettendo in comune l’indignazione per quello di cui sono involontari testimoni diretti, come avviene in Val Roja tra Claviere e Briancon e sui sentieri del Monginevro. “Se i migranti sono le prime vittime delle frontiere – sottolinea Davide Filippi – anche queste persone solidali mettono a rischio buona parte delle proprie biografie, in alcuni casi prendendo denunce per ‘favoreggiamento all’immigrazione irregolare’ per avere semplicemente offerto ospitalità e soccorso a migranti lasciati in mezzo alla strada in condizioni di estrema vulnerabilità”.
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