di Francesco Galeazzi

In questi giorni così vicini alla festa del Primo maggio, non poteva non tornare alla ribalta il tema del disegno di legge sul salario minimo che fu firmata dalla ministra cinquestelle Nunzia Catalfo nel 2018. In estrema sintesi, la legge sul salario minimo ritiene che nessun lavoratore deve guadagnare meno di quanto previsto dai contratti collettivi nazionali di lavoro più rappresentativi. In questa prospettiva, lo Stato interviene nella contrattazione collettiva in modo tale da limitare se non evitare una predominanza del mercato nel determinare la retribuzione per quei lavoratori che si trovano in fondo alla scala salariale.

Nei primi anni del 1900, un famoso sociologo tedesco naturalizzato italiano, Robert Michels, scrisse il libro L’economia della felicità, in cui teorizzò l’idea di un’economia che aveva come fine la felicità, chiedendosi se esiste anche un rapporto tra economia/felicità, quali sono le variabili economiche e non economiche che la determinano e se sarebbe opportuno pensare a delle politiche pubbliche per raggiungerla. Per il sociologo la felicità ha principalmente una valenza individuale ma la sua ricerca deve essere il fine ultimo della vita collettiva, nonché dell’attività economica. Esistono però, secondo Michels, delle variabile economiche che determinano la felicità. Tra queste troviamo il salario, le condizioni del lavoro, il salario relativo e la ricchezza.

Il salario è il determinante economico della felicità soprattutto in questa società dove è diventato centrale nella vita di ciascuno di noi. È un prodotto fortemente culturale, frutto della evoluzione della civiltà umana. Infatti il salario ha una funzione fondamentale per quanto riguarda le norme sociali (ad esempio in alcune culture il lavoro è apprezzato socialmente e l’ozio è condannato; in altre culture invece, si incentiva il fatto di lavorare il meno possibile). È funzionale anche alle norme morali in quanto in alcune culture il lavoro deve essere eseguito per il senso del dovere, per rispondere ad una vocazione.

Per ultimo è anche funzione delle tecniche di produzione.
Secondo Michels però, il lavoro salariato è più spesso fonte di infelicità che di felicità per svariati motivi: in primo luogo il lavoro salariato non è libero ma nasce dal bisogno del lavoratore di lavorare per sopravvivere. In secondo luogo il lavoro salariato è una “merce” soggetta a sfruttamento da parte del capitalista perché egli ha la proprietà dei mezzi di produzione. In terzo luogo il lavoro salariato è fonte di fatica, dolore, pena sia fisica che psicologica.

Tralasciando i fattori intrinsechi ed estrinsechi che portano ad una concezione negativa del lavoro, Michels si sofferma anche sulla serie di politiche economiche che lo Stato potrebbe portare avanti per la crescita economica di un Paese: oltre ad una più equa distribuzione di beni e ad una riforma del lavoro, lo studioso è stato anche un forte sostenitore di una legge sul salario minimo, incoraggiando l’adozione da parte dello Stato di tutti quei provvedimenti atti a facilitare una trasformazione qualitativa del lavoro, cioè il passaggio dal labour (il lavoro che sfrutta l’operaio causandogli una loss of life) al work (il lavoro sano, carico di senso e moralmente buono).

Michels non si dimentica neppure che tra le determinanti di felicità ci siano anche le politiche di Welfare State atte ad attenuare i rischi di vita (ad esempio salute mentale), politiche culturali che permettano di attenuare l’alienazione dal lavoro, le politiche di controllo demografico e le politiche per il capitale umano.

Concludo dicendo che sono molti i fattori che Michels ritiene importanti per la ricerca della felicità, tra cui per l’appunto quella dell’adozione di un salario minimo (io aggiungo anche forme di protezione sociale come il reddito di cittadinanza). Le politiche del governo Meloni, però vanno nel senso contrario; difatti il suo governo è contrario all’adozione del salario minimo. La felicità, in questo caso, rimane un’utopia.

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