di Gianluigi Perrone*

A Pechino, da dove scrivo, è impossibile non notare che i media cinesi hanno una certa propensione ad osannare il presidente francese Emmanuel Macron, di recente in visita in Cina. Non vi è solo la canonica copertura dei portali ma lo spazio d’onore che si dedica agli amici del Partito (vedi Putin) e persino il sito e-commerce Taobao ha promosso “la settimana dei prodotti francesi”.
Questo avviene perché la visita del leader francese pare aver reinterpretato gli equilibri geopolitici internazionali, mostrando alla Cina di essere apprezzata in Europa, semplicemente manifestando la volontà del suo paese di continuare i rapporti economici con la Cina a prescindere dell’affaire Taiwan.

Durante i tre giorni, ha siglato accordi economici per nucleare e materie prime alimentari con il presidente Xi Jinping ed è stato accolto con tripudio a Guanzhou, invocando “un’autonomia strategia dell’Europa”. Affida a Politico affermazioni forti (salvo poi correggere il tiro): “L’Europa deve smetterla di comportarsi come ‘follower’ degli Stati Uniti” e “non abbiamo interesse ad accelerare la questione Taiwan”. Infine “non dobbiamo dipendere dall’extraterritorialità del dollaro”. Già perché la Francia è il primo Paese europeo a firmare accordi commerciali che prevedono l’uso dello Yuan (e non del dollaro americano) per il pagamento tra Total e China National Offshore Oil Corporation per l’acquisto di gas natural liquefatto (GNL) attraverso lo Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange.

Non posso non interpretare questo come l’avvenimento chiave, precedente alla visita, ma che sugella gli accordi tra Francia e Cina, ma che influenza pesantemente tutta l’Europa mediterranea, e non solo. Ho esaminato l’argomento sul canale Mind Cathedral che curo qui.

Se da dopo la Seconda Guerra Mondiale il dollaro americano ha avuto a ragione il ruolo di moneta commerciale, per i paesi in via di sviluppo, e principalmente per la Cina che ha una concezione centripeta dell’economia internazionale, è stato un peso da trascinare malvolentieri. L’accordo tra Brasile e Cina (Lula visiterà Pechino tra pochi giorni) è il primo di un fenomeno di “de-dollarificazione” che ci si aspettava avrebbe interessato i paesi del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), oltre alla decisione dell’Arabia Saudita di far parte del patto che conferisce allo Yuan un ruolo di competitor pericolosissimo per il dollaro. Semplicemente Pechino può rendere il cambio con la propria valuta più favorevole di quella americana e catalizzare su di sé gli investimenti internazionali. Sicuramente tra i 25 paesi che pare stiano portando avanti quest’accordo epocale con la Cina, l’Arabia Saudita ha un ruolo influente per via del suo primato sull’esportazione del petrolio.

Tuttavia è la decisione della Francia a sorprendere, perché suona molto come una presa di posizione contro gli Stati Uniti. Lo stesso sentore che si aveva quando Olaf Scholz volò a Pechino con i maggiori rappresentanti dell’industria tedesca ad assicurare, all’indomani del conflitto ucraino, che il rapporto commerciale con la Cina doveva continuare.

Pochi giorni fa anche Pedro Sanchez ha fatto la sua comparsa nelle stanze della Great Hall of the People, instillando il dubbio che questa processione fosse un modo per imporre diplomaticamente una pausa tra Cina e Usa. Sicuramente fa molto piacere a Pechino, alla mentalità cinese, essere presi in così grande considerazione. Potrebbe realmente bastare ad aprire nuovamente Xi al mercato internazionale, nonostante la fazione di Jiang Zemin sia scomparsa con il suo leader, e con essa la parte tecnocratica e “atlantista” del Partito. In generale è uno stimolo per il Presidente neo ri-eletto a continuare il progetto di espansione dello Yuan e dello Yuan digitale, anch’esso un cavallo di Troia all’interno del mercato internazionale.

Questa mossa, insieme allo sviluppo della Belt & Road initiative, che favorisce il commercio via terra a sfavore di quello via mare, preferito dagli Usa, e al potenziale monopolio sui semiconduttori (materie prime cinesi più tecnologia taiwanese) che è fondamentale per tutta la tecnologia mondiale (quindi per tutto), rischiano di accentrare sulla Cina un potere senza precedenti che tuttavia, per via di alcuni aspetti della mentalità cinese, giustifica le preoccupazioni di Washington, ma non le reazioni che denunciano un atteggiamento etnocentrico che non comprende le profonde differenze culturali tra i popoli e anzi tende sempre a provocazioni che non prevedono riconciliazione.

Se si ragiona cinicamente, è pur vero che giocarla sul piano militare vorrebbe dire successo sicuro per gli Usa (e il Giappone che sarebbe il vero attore della guerra navale), ma a patto di non essere isolati dal resto del mondo. Quindi quella di Macron potrebbe essere una mossa di congelamento dei conflitti, nell’interesse dell’Europa che avrebbe il tempo di crescere e prendere le decisioni da sé. Se ciò dovesse essere supportato dalla Cina sarebbe sicuramente immediato il riscontro positivo da Pechino.

Le reazioni dagli Stati Uniti non si sono fatte aspettare: il senatore repubblicano, Marco Rubio, in corsa nel 2016 contro Trump per le primarie, ha criticato Macron, chiedendosi se parli per l’Europa intera, visto che era accompagnato nel viaggio cinese da Ursula Von der Leyen, e suggerendo che forse gli Stati Uniti dovrebbero staccarsi dalla difesa militare dell’Europa, che vige da 70 anni, per lasciare che la questione Ucraina sia un problema tutto europeo. Questo sarebbe lo scenario più tragico: questo porterebbe nuovi guai per l’Europa (soprattutto per i paesi limitrofi alla Russia quali la neo-Nato Finlandia) certo, ma contribuirebbe pure ad alimentare il già dilagante anti-americanismo che fino ad ora è stato alimentato solo ed esclusivamente da Washington.

*CEO Polyhedron VR Studio

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