“Che si taglino i piedi” se gli stivali sono troppo piccoli oppure “che taglino gli stivali davanti con i piedi fuori”. Rispondevano così i padroni della società italo-spagnola Tecnova ai lavoratori stranieri che chiedevano calzature idonee per lavorare come schiavi nei campi per la costruzione di impianti fotovoltaici. Il “green”, le energie del futuro, installato con pratiche medievali. Giornate intere con la schiena piegata per paghe da fame. Anche dodici ore al giorno, tutti giorni, anche la domenica. Nemmeno la pioggia e il fango dovevano fermare le attività che la magistratura ha definito “gravemente lesive della dignità dell’uomo, dei suoi diritti e delle sue libertà fondamentali”.

Era il 2011 e il giudice per le indagini preliminari di Lecce aveva firmato l’ordinanza di custodia cautelare che aveva portato in carcere 15 persone accusate di riduzione in schiavitù, estorsione e altri gravi reati nei confronti di centinaia di lavoratori, anche stranieri e in alcuni casi senza permesso di soggiorno: a distanza di 12 anni da quegli arresti sulla bufera che travolse la Tecnova è arrivata la sentenza di primo grado e condanne pesanti nei confronti degli imputati ritenuti a capo di quella catena di comando. Sette condanne inflitte dalla corte d’assise di Lecce con pene comprese tra i 10 e i 18 anni di carcere. Cinque invece sono state le assoluzioni. Le accuse a vario titolo erano di avere fatto parte di una associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento e riduzione in schiavitù di centinaia di lavoratori costretti a lavorare anche per 12 ore al giorno in qualunque condizione climatica per due euro all’ora.

Le indagini della Direzione distrettuale antimafia di Lecce aveva permesso di documentare come al di là quanto riportassero le carte ufficiali dei contratti, ai lavoratori venivano offerte condizioni di lavoro disumane. Chi si lamentava perdeva il lavoro o veniva minacciato. In tanti però, erano costretti a subire in silenzio perché “privi di alternative lavorative e di mezzi di sostentamento”, scrivevano i magistrati nelle carte dell’inchiesta. Quella condizione era il terreno ideale per i titolari dell’impresa e i capi cantiere. Ad aprire una breccia nel muro di omertà sono stati alcuni operai, stanchi essere trattati come bestie: il loro contratto prevedeva ufficialmente 40 ore alla settimana ma in realtà cominciavano a lavorare alle 7 e finivano alle 19 nei giorni feriali. Sabato e domenica aveva qualche ora di riposo in più.

“Nonostante il lavoro fosse molto faticoso lavoravo anche oltre l’orario concordato e non mi sono mai lamentato – ha raccontato uno di loro ai finanzieri e ai poliziotti che hanno condotto l’indagine – accettando passivamente tutto quello che mi dicevano di fare per necessità poiché dovevo mandare soldi anche alla mia famiglia in Tunisia”. Montare i pannelli fotovoltaici nei campi era difficoltoso e con la pioggia era quasi impossibile, ma per i padroni non era un motivo sufficiente per fermare il lavoro. “È stata proprio la pioggia – ha aggiunto il tunisino agli investigatori – il motivo del mio licenziamento”. Quell’uomo aveva infatti avuto il coraggio di lamentarsi con i capi rinfacciando le condizioni contrattuali e il trattamento a cui erano sottoposti. La reazione è stata semplice: licenziato. Sfogliando le pagine di quelle inchieste, tuttavia, il licenziamento sembra quasi un trattamento privilegiato: le intercettazioni hanno infatti raccontato le violenze anche fisiche subite da chi aveva l’ardire di chiedere il rispetto della sua prestazione lavorativa.

“Oggi per poco non do un pugno a un negro, lo sai? In pieno, in ufficio, l’ho preso per il corpo e gli ho detto pure puttana di sua madre”, si vantava uno degli imputati per descrivere il modo in cui aveva trattato un operaio che pretendeva di ricevere il suo stipendio. Ma anche per molto meno l’ira dei padroni si scatenava: uno dei titolari alla segretaria, che faceva presente la mancanza di stivali taglia 43, aveva proposto che i lavoratori si tagliassero i piedi oppure che si tagliassero gli stivali e lavorassero con i “piedi fuori”. E quando alle orecchie dei capi era giunto che qualcuno aveva sporto addirittura denunce, agli scagnozzi erano arrivati ordini chiari e precisi: “Lo prendi, gli spezzi le gambe, quello che vuoi… Purché la ritiri… Fai quello che vuoi, ma che la ritiri”. E così tra chi invece continuava ad abbassare la testa c’era chi aveva lavorato fino a 22 ore consecutive: “A gennaio – ha svelato uno delle centinaia di lavoratori ascoltati dalle forze dell’ordine – ho incominciato lavorare la mattina alle sette per terminare alle cinque della mattina del giorno successivo”.

Per il gip che dispose gli arresti e il sequestro di beni – che la Cassazione annullò accogliendo i ricorsi di alcuni avvocati, tra quali Fabio Di Bello – si trattava di imprenditori e dirigenti che gestivano “il rapporto di lavoro secondo un malinteso senso di supremazia ‘padronale’, disconoscendo i diritti, patrimoniali e non, dei lavoratori sotto il costante ricatto del licenziamento”. Il metodo di lavoro era “l’intimidazione” per forzare la volontà degli operai e vincerne le resistenze. Modalità che sembrano appartenere ad altri secoli e ad altri paesi del mondo: “Se devo fare un paragone – aveva infatti commentato uno dei tanti schiavi del fotovoltaico – posso dire che i nostri nonni che lavoravano nei campi di cotone sicuramente venivano trattati meglio”.

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