Sono due degli obiettivi trasversali del Recovery plan, cioè quelli a cui tutti i progetti concordati con la Ue dovrebbero contribuire. Ma, mentre l’utilizzo effettivo dei fondi arranca, l’aumento dell’occupazione giovanile e la parità di genere rischiano di rimanere occasioni perse. Perché gli obblighi di assunzione di giovani e donne per l’esecuzione degli appalti sono estremamente laschi. E l’efficacia delle misure che potrebbero ridurre le disuguaglianze legate a età e sesso resta tutta da dimostrare: al netto dei soldi da spendere per le infrastrutture, la scuola, le politiche attive del lavoro e la sanità, dipenderà dalla effettiva capacità della pa di offrire servizi migliori. L’avvertimento arriva dalla Corte dei Conti, che nella Relazione semestrale 2023 sullo stato di attuazione del Pnrr ha rivisto nettamente al ribasso la stima sulle risorse della Recovery and resilience facility concorreranno a quegli obiettivi. La quota di fondi che daranno un contributo positivo all’occupazione giovanile crolla di 68 miliardi, dai 122 stimati un anno fa a 54,6 (di cui 27,6 con impatto diretto) su 191,4 totali. Quella che aumenterà la parità di genere cala di oltre 64 miliardi, da 114 a 50 di cui 8,7 con impatto diretto.

La magistratura contabile, nel documento che sarà presentato al Parlamento martedì 28, premette che le nuove valutazioni derivano dalla definizione a livello Ue dei 14 indicatori comuni utili per monitorare i risultati raggiunti con l’attuazione dei Piani nazionali e dal lavoro di Ragioneria generale, Istat e ministero dell’ambiente per collegare le misure del Pnrr agli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. Insomma: i ritardi attuativi non c’entrano. Il risultato comunque dovrebbe far suonare un campanello di allarme, posto che le pessime performance italiane sul fronte delle competenze dei giovani, del loro tasso di occupazione, del numero di Neet e precari e della quota di ragazzi costretti a rimanere in casa con i genitori sono da tempo al centro delle raccomandazioni della Ue all’Italia. Così come la bassa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’occupazione di quelle che hanno figli. Cosa c’è nel Piano per cambiare le cose?

Il primo canale di impatto, stando al piano scritto da Mario Draghi e presentato alla Ue nell’aprile 2021, dovrebbero essere i vincoli sulle assunzioni per le imprese a cui viene assegnata la realizzazione dei lavori. Il decreto semplificazioni e governance del maggio 2021 e le successive linee guida impongono sulla carta di riservare sia ai giovani sia alle donne almeno il 30% dei contratti di assunzione necessari per eseguire il contratto. Ma l’obbligo è solo sulla carta, ricostruisce la Corte: quegli obiettivi valgono solo “sui livelli di occupazione aggiuntiva nell’esecuzione dei lavori, e quindi
prescindono dalla struttura occupazionale in essere” ma soprattutto la stazione appaltante ha facoltà di soprassedere nei casi in “l’oggetto del contratto, la tipologia o la natura del progetto o altri elementi puntualmente indicati ne rendano l’inserimento impossibile o contrastante con obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”. Risultato: come ricostruito da Repubblica nei giorni scorsi, il 70% degli affidamenti registrati nella banca dati Anac è stato fatto derogando alle quote.

Ai due obiettivi concorrono poi diverse azioni previste: le riforme delle politiche attive e della pa, il potenziamento del sistema di istruzione, la digitalizzazione, gli interventi contro il disagio abitativo e quelli nei trasporti aiutano i giovani (vedi tabella a fianco), mentre alla parità di genere contribuiscono gli asili nido, il piano per l’estensione del tempo pieno e delle mense e ovviamente – questi sono interventi trasversali – politiche per il lavoro, assistenza sanitaria territoriale, nuove reti ferroviarie. Ma “questo richiederà non solo la capacità di finanziare la spesa corrente necessaria perché tali infrastrutture possano essere utilizzate, ma anche di tradurla negli output desiderati, attraverso un’offerta di servizi pubblici ben organizzata, in grado di migliorare la qualità della vita e dell’ambiente urbano tanto da indurre a modificare i comportamenti delle persone, in termini di partecipazione al mercato del lavoro, percorsi di studio, decisioni di mobilità territoriale”, notano le Sezioni riunite.

Infine, a pesare sull’effettiva riduzione dei divari che penalizzano donne e giovani c’è una struttura produttiva che il Pnrr non ha il potere di modificare: “Sulle disuguaglianze pesa molto il lato della domanda, che vede in diversi ambiti una forte sperequazione nelle opportunità”. E qui “intervengono diversi caratteri strutturali del nostro sistema produttivo, sui quali il PNRR non può rappresentare una risposta risolutiva: la presenza di un numero elevato di imprese di piccola dimensione, che si presta meno allo sviluppo di forme organizzative articolate, come fornire flessibilità di orario e conciliazione; l’importanza dei fattori relazionali in mercati spesso poco aperti alla concorrenza, che limitano le possibilità di ingresso dei lavoratori più giovani, e favoriscono i legami familiari; la struttura dei rapporti fra generazioni, che vede ancora la centralità della cura familiare delle persone non autosufficienti, come anziani e bambini; i modelli abitativi e la relativa legislazione, basate sulla proprietà dell’abitazione di residenza“. L’unica azione utile, su questi fronti, sarebbe l’apertura di alcuni settori alla concorrenza. Tasto dolente per l’Italia, dove – anche a scapito dei servizi ai cittadini – nessun governo è stato finora in grado di scalfire i privilegi di piccole lobby come i taxisti e i concessionari balneari.

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