Gli investimenti realizzati in Italia nel settore idrico raggiungono i 56 euro all’anno per abitante, in crescita del 17% dal 2019 (quando era a 49 euro) e del 70% dal 2012, ma il Paese è lontano dalla media europea (a quota 82 euro) e il miglioramento della qualità del servizio segna una netta differenza tra Nord e Sud. Un gap dovuto alla diversa capacità di investimento tra le gestioni industriali e quelle comunali ‘in economia’, dove gli enti locali si occupano direttamente del servizio idrico, diffuse soprattutto al Meridione. Nel frattempo, solo l’11% dell’acqua piovana viene trattenuta dagli invasi esistenti, che hanno un’età media di 62 anni, il 60% della rete idrica ha più di 30 anni e il 25% ha più di mezzo secolo. Per non parlare del riuso diretto delle acque reflue depurate in agricoltura fermo al 4%, contro un potenziale del 23% e di 1,6 milioni di italiani privi del servizio di depurazione, soprattutto nel Sud e nelle isole. Tutti fattori di vulnerabilità che rendono il Paese impreparato rispetto ai cambiamenti climatici e alla loro influenza sul ciclo idrologico. D’altronde la disponibilità media di acqua degli ultimi 30 anni (circa 133 miliardi di metri cubi) è diminuita del 20% rispetto al periodo 1921-1950. Lo ricorda il nuovo Blue Book, monografia completa dei dati del Servizio idrico integrato, presentata da Utilitalia per la Giornata Mondiale dell’Acqua e realizzata dalla Fondazione Utilitatis con la collaborazione di The European House – Ambrosetti e con Istat, Ispra, Cassa Depositi e Prestiti, il Dipartimento della Protezione Civile e le Autorità di Bacino.

La gestione frammentata – Al centro dell’analisi le differenze tra Nord e Sud e, soprattutto, tra diverse gestioni. In gran parte del territorio italiano, il servizio idrico è integrato e gestito da un unico operatore industriale: questo avviene in 5.759 Comuni (il 76% del totale) per una popolazione di circa 47 milioni di persone (l’82% del totale), ma è un sistema maggiormente diffuso al Nord Est e al Centro (rispettivamente per 98% e il 92% dei Comuni) e in misura inferiore al Sud (il 52%). In alcune realtà, invece, la filiera del servizio idrico è frammentata, seppur gestita da operatori industriali. Si tratta di 343 comuni (circa 2,3 milioni di persone, il 4% della popolazione nazionale). Alcuni Comuni gestiscono ‘in economia’ il servizio idrico, con in capo allo stesso Comune almeno una delle attività di acquedotto, fognatura e depurazione (o tutte, laddove il servizio è integrato). Funziona così in 1.519 Comuni (il 20% rispetto al dato nazionale) pari a circa 8,2 milioni di abitanti serviti (circa il 14% della popolazione nazionale). La maggior parte di queste gestioni ‘in economia’ interessa il Sud: 1.206 i Comuni, per una popolazione di circa 7,7 milioni di persone. E tutto questo ha delle conseguenze.

Il gap degli investimenti e l’urgenza – Perché se con l’avvio della regolazione ARERA, nel 2012, dopo anni di instabilità gli investimenti registrano un incremento (per il 2021 si stima un valore pro capite di 56 euro) sul territorio ci sono enormi differenze. Quelli realizzati dai gestori industriali per il Centro Italia sono di 75 euro l’anno per abitante, seguito dal Nord-Est (56 euro) e dal Nord-Ovest (53 euro). Decisamente più bassa la stima per il Sud, fermo a 32 euro l’anno. “Ancora bassissimi – si spiega nel Blue Book – i dati relativi alle gestioni ‘in economia’, con cui gli investimenti medi annui si attestano a 8 euro”. Solo che negli ultimi 9 anni la temperatura nelle principali città italiane è aumentata di 1,3°C e nel 2022 è stato dichiarato lo stato di emergenza per deficit idrico in dieci Regioni: Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Lazio, Liguria, Toscana, Marche. Per superare il divario territoriale e migliorare il grado di resilienza delle infrastrutture alla luce degli effetti dei cambiamenti climatici in corso sono necessari ulteriori investimenti. “Gli effetti dei cambiamenti climatici sulla disponibilità della risorsa idrica – aggiunge il presidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – sono sempre più evidenti e danno luogo ad eventi che non si possono più considerare eccezionali”. Utilitalia stima che i gestori investiranno, nei prossimi anni, almeno 10 miliardi di euro (la metà dei quali entro il 2024) aggiuntivi rispetto agli interventi finanziati con circa 4 miliardi di euro dal Pnrr, per un volume complessivo di acqua recuperata stimato in circa 620 milioni di metri cubi.

Il nodo dei consumi – Il primo passo, però, spiegano gli esperti è la riduzione dei consumi. Secondo i dati Istat, dal 2015 al 2019 in Italia sono stati prelevati circa 30,4 miliardi di metri cubi di acqua per i principali settori d’uso. Il 56% è stato prelevato per l’irrigazione, seguono l’uso civile con il 31% e il settore industriale manifatturiero con il 13%. Nonostante la riduzione dello 0,4% rispetto al 2018, la verità è che l’Italia si conferma, ormai da più di un ventennio, al primo posto tra i Paesi Ue per la quantità, in valore assoluto, di acqua dolce complessivamente prelevata per uso potabile da corpi idrici superficiali o sotterranei. In termini pro capite, l’Italia (155 metri cubi annui per abitante) si colloca in seconda posizione, preceduta solo dalla Grecia (158) e seguita a netta distanza da Bulgaria (118) e Croazia (113). E il maggiore prelievo di acqua per uso potabile avviene nel distretto idrografico del Fiume Po: 2,80 miliardi di metri cubi, pari al 30,5% del totale nazionale.

Perdite di rete (157 litri al giorno per abitante) e interruzione dei servizi – L’incremento degli investimenti osservato negli ultimi anni emerge dagli indicatori della qualità del servizio idrico, come dimostrano i dati sulle perdite di rete (da circa il 44% del 2016 al 41% del 2021) o sulla frequenza degli sversamenti e allagamenti in fognatura (dai 12 eventi l’anno ogni 100 chilometri di rete del 2016 ai 5 del 2021). Resta ferma la distanza tra Nord e Sud. Per esempio nel numero di interruzioni del servizio, che nel Meridione è di due ordini di grandezza superiore rispetto al Settentrione e nelle perdite di rete, che nelle regioni del Sud sono a circa 47% contro il 31% del Nord-Ovest. Il risultato? Istat stima che la quantità di acqua dispersa sia di 157 litri al giorno per abitante: “Calcolando un consumo pro capite pari alla media nazionale, il volume di acqua disperso nel 2020 soddisferebbe le esigenze idriche di oltre 43 milioni di persone per un intero anno”. Secondo i dato Istat, nel 2020, in nove regioni le perdite idriche totali in distribuzione sono state superiori al 45%, con i valori più alti in Basilicata (62,1%), Abruzzo (59,8%), Sicilia (52,5%) e Sardegna (51,3%). Di contro, tutte le regioni del Nord hanno registrato un livello di perdite inferiore a quello nazionale, ad eccezione del Veneto (43,2%). Il Friuli Venezia Giulia, con il 42,0%, è in linea con il dato nazionale. In Valle d’Aosta, il valore minimo di perdite (23,9%), seppur in aumento di circa due punti percentuali rispetto al 2018.

Un percorso a step: “Partire da riuso, diversificazione, cuneo salino e gestioni indistriali” – Utilitalia sottolinea, quindi, la necessità di adottare un approccio preventivo, dove le cosiddette ‘5 R’ – Raccolta, Ripristino, Riuso, Recupero e Riduzione – costituiscono le azioni non più rinviabili. E lancia otto proposte in diversi step: entro 3 mesi favorire il riuso efficiente, contrastare il cuneo salino, diversificare la strategia di approvvigionamento e sostenere la presenza di gestioni industriali. Il riuso delle acque depurate a fini agricoli o industriali è un potenziale enorme: circa 9 miliardi di metri cubi all’anno, di cui soltanto il 5% viene sfruttato (475 milioni). Per quanto riguarda le fonti di approvvigionamento idrico, in Italia, per esempio, le acque marine o salmastre ne rappresentano solo lo 0,1%, contro il 7% della Spagna e il 3% della Grecia. In questa direzione vanno i progetti che puntano a produrre acqua potabile dal mare attraverso la dissalazione. Le altre proposte, da attuare entro 6 mesi, sono quelle di rafforzare la governance dei distretti idrografici e semplificare la realizzazione degli investimenti, per poi promuovere l’uso efficiente dell’acqua, incentivando la riduzione delle perdite di rete e i comportamenti virtuosi. Infine, la realizzazione di opere infrastrutturali strategiche, come interconnessioni delle reti, grandi invasi multifunzionali e piccoli invasi a uso irriguo.

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