La Procura di Bologna ha chiesto l’archiviazioneper l’autodenuncia delle attiviste dell’associazione Coscioni dopo che hanno accompagnato in Svizzera una donna di 89 anni per il suicidio assistito. Il fascicolo era stato aperto solo cinque giorni fa e la richiesta è arrivata il 13 febbario, appena cinque giorni dopo. Come riferito dall’agenzia Ansa, il procuratore Giuseppe Amato si è basato sulla sentenza della Corte costituzionale del 2019 sul caso di Fabiano Antoniani, Dj Fabo. E ha ritenuto, rifacendosi anche ad altri precedenti simili, di dare una interpretazione più ampia al concetto di “trattamento di sostegno vitale” previsto dalla Consulta, estendendolo “a situazioni ulteriori rispetto al collegamento della persona con un macchinario che ne assicuri la persistenza delle funzioni vitali”. Nel caso specifico: il trattamento farmacologico per la donna 89enne che era malata di Parkinson.

Giovedì 9 febbraio le attiviste Felicetta Maltese e Virginia Fiume, insieme a Marco Cappato, rappresentante legale dell’associazione Soccorso Civile e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, si sono presentate alla caserma dei carabinieri di via Vascelli a Bologna per autodenunciare quanto fatto il giorno precedente, accompagnando la bolognese Paola a morire in Svizzera. La Procura li ha iscritti per istigazione al suicidio e ha in breve tempo mandato il fascicolo verso l’archiviazione: ora si attende la decisione del Gip. “Se la linea della Procura sarà confermata, si tratta di un precedente importante per il diritto alla libertà di scelta”, commenta l’associazione Coscioni.

Un punto importante della questione, per il procuratore Amato, è che tra i “mezzi artificiali di sostegno vitale” a cui si riferisce la Consulta nella sentenza su Dj Fabo, possono rientrare anche “quei trattamenti farmacologici la cui riduzione potrebbe determinare un peggioramento delle condizioni e portare poi alla morte”. A riguardo, è citata una pronuncia del 27 luglio 2020 della Corte di assise di Massa che ha assolto Marco Cappato e Mina Welby per il suicidio assistito di una persona affetta da sclerosi multipla. Patologia che provocava dolori insopportabili e non lenibili, il cui parziale rimedio era la somministrazione di farmaci antidolorifici a dosaggi sempre maggiori, con rischio per la sua vita, ma che non era invece dipendente da trattamenti medici necessari per la sopravvivenza come idratazione, alimentazione artificiale, emotrasfusione. La nozione di trattamento di sostegno vitale deve essere intesa, quindi, in modo più estensivo, “come comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico, interrotti i quali si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida”, scrive Amato nella richiesta di archiviazione.

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