Certo, evviva. Lo Stato ha catturato Matteo Messina Denaro. Complimenti a chi lo ha catturato.

Ma la buona notizia arriva tardi, alle orecchie di chi non si accontenta e non è una notizia degna di uno Stato civile. Non c’è uno Stato civile e avanzato che possa permettersi il lusso dell’inciviltà del suo nemico numero 1 latitante tra le sue mura di cinta per tre decenni. Parafrasando Bertold Brecht, “beato (e civile) il Paese che non ha bisogno di eroi… e di latitanti”.

Se l’Italia fosse un Paese pienamente civile, quel boss sarebbe stato arrestato e giudicato secondo le nostre regole civili da anni e forse ci sarebbero state molte stragi in meno. Falcone, Borsellino, il piccolo Di Matteo sciolto nell’acido. E mi fermo qui per evitare la utile retorica di un lunghissimo elenco.

Dai, basta con la retorica, diciamocelo senza ipocrisie: parliamo di un uomo di 60 anni, la metà dei quali passati a gabbare (per così dire) lo Stato e “governare” metro per metro e senza controllo per 30 anni il chilometro quadrato dell’area compresa tra Castelvetrano, Campobello di Mazara, Partanna. La sua terra, sua proprio nel senso letterale, sua di proprietà. Come un Re, appunto. Un altro piccolo ma vasto triangolo di territori nei quali le regole civili sono sospese. Il procuratore attuale di Palermo, Maurizio De Lucia, ha usato parole serie e asciutte per spiegare le ragioni e le contraddizioni di questa lunga storia di ordinaria anormalità democratica: il boss di Cosa nostra è stato protetto da una fetta di “borghesia mafiosa” che ha aiutato la sua latitanza. Il magistrato, dopo aver detto che le indagini continuano, ha chiarito che a suo giudizio “la mafia non è stata sconfitta”.

Una puntualizzazione non inutile, nel momento in cui la retorica politica ha continuato a gridare che “la mafia è stata sconfitta” e insomma, il problema è finito.

Ma cosa è la “borghesia mafiosa”? Eccola lì, nelle indagini del giorno dopo e speriamo in quelle dei mesi futuri. Dentro quella rete c’è, dentro quel piccolo kmq di terra italiana, in ordine e senza fare nomi – che tanto non hanno importanza perché anche qui come nel caso degli omicidi sarebbe lungo: un medico (ex candidato non eletto alle Regionali nella liste di Totò Cuffaro) in pensione, che firmava le ricette per le cure del latitante; un geometra (nipote di un boss) proprietario della casa-covo abitato dal boss e che gli ha prestato l’identità esibita con documenti rilasciati dal Comune; un ufficiale dell’anagrafe che ha rilasciato quel documenti; un contadino e commerciante di olio (poi arrestato con lui) che gli faceva da autista. E la rete continuerà ad allungarsi man mano che le indagini andranno avanti.

Il punto è che quella rete, nel caso di Matteo Messina Denaro, è lunga più di un quarto di secolo. Ed è difficile inghiottire e digerire, ad esempio, le parole del sindaco di Campobello di Mazara che si dice stupito della presenza del boss in quella casa del suo Comune, abitato da appena 11mila persone. E la verità è che questa lotta al potere concreto della mafia non la possiamo delegare solo a magistrati, carabinieri e poliziotti e non possiamo fidarci della politica che nell’isola è permeata da oscure, ma anche palesi, presenze. Perché dentro quella rete di “borghesia mafiosa” ci sono anche vicini di casa, professionisti, funzionari e molti amici dei nostri amici. C’è un “sistema” che per tre decenni ha permesso il trasferimento di funzionari di pubblica sicurezza e magistrati impegnati a cercare quel latitante o messi nelle condizioni di non nuocere. Qualcuno anche ucciso.

La presenza ben radicata di una “borghesia mafiosa” ci dice che non è il tempo di festeggiare ma di smantellare quella rete e mettere a nudo le collusioni politiche e i silenzi istituzionali di decenni. L’arresto del boss è solo un primo passo. Ora spiegateci chi lo ha protetto, perché altrimenti non c’è nulla da festeggiare e questo non è un Paese civile.

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