E adesso che è stato arrestato Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande latitante della stagione stragista di Cosa nostra, cosa si può fare di più per combattere la mafia di oggi, meno letale e fragorosa, ma sempre più radicata negli affari pubblici e privati? La via ce la indica, involontariamente, Silvio Berlusconi: “Lo Stato è più forte e la mafia non vincerà”, si è entusiasmato alla notizia dell’arresto, e ha rivendicato: “Con i nostri governi abbiamo dato nuovo impulso alla lotta contro la criminalità organizzata”.

Chissà se si riferisce anche al suo governo del 2001-2006, dove sulla poltrona di sottosegretario all’Interno sedeva il senatore di Forza Italia Antonio D’Alì, la cui condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa è diventata definitiva giusto un mese fa. Non arrivò nessuna obiezione, almeno in pubblico, dagli altri partiti della coalizione, a partire da Alleanza nazionale, antenata di Fratelli d’Italia, e Lega nord. Eppure già all’epoca erano noti i legami fra la famiglia D’Alì e la famiglia Messina Denaro. In quel di Castelvetrano, provincia di Trapani, il padre di Matteo lavorava come campiere e coltivatore nei terreni dei D’Alì. Certo, all’epoca nessuna accusa penale era stata rivolta al senatore. Ma la politica non dovrebbe andare al traino della magistratura, ce lo ricordano ogni giorno fior di garantisti. Insomma, portare D’Alì in Parlamento e ai vertici ministero dell’Interno era formalmente legittimo, ma non obbligatorio.

Il centrodestra poteva benissimo scegliere altri nomi senza ledere né la democrazia né alcuna garanzia. È troppo forcaiolo dire che quei contatti di famiglia rendevano quanto meno inopportuna la collocazione di Antonio D’Alì a quel livello, per giunta nel Ministero che aveva in carico la ricerca del boss all’epoca già latitante dal 1993? Chi oggi si porta dietro quella responsabilità politica, può davvero festeggiare l’arresto di Messina Denaro e sdilinquirsi in complimenti “alle forze dell’ordine e alla magistratura”?

Il percorso giudiziario di Antonio D’Alì, indagato per concorso esterno a Cosa nostra nel 2010, è stato lungo e tortuoso, come spesso accade. Forza Italia ha sempre fatto quadrato. Alla notizia dell’indagine, Gaetano Quagliariello disse che eravamo “nel Paese di Kafka” (24 ottobre 2011). In occasione di una prima assoluzione Renato Schifani, oggi presidente della Regione Sicilia, commentò: “Finalmente la verità” (30 settembre 2013). Una nota di Paolo Romani e Anna Maria Bernini, attuale ministra dell’Università, un anno dopo salutava così il ritorno di Antonio D’Alì in Forza Italia dopo un passaggio nel Nuovo centrodestra di Angelino Alfano: “Con grande gioia e soddisfazione riabbracciamo in Forza Italia l’amico e collega Antonio D’Alì, uomo di grande esperienza e indubbia capacità politica” (13 ottobre 2014). Lo stesso D’Alì riportò alla stampa una telefonata di congratulazioni da parte di Silvio Berlusconi, sempre in occasione di una prima assoluzione, in cui il leader di Forza Italia gli diceva: “Hai visto che abbiamo fatto bene a candidarti?”. Fecero talmente bene che, fra le accuse che sono poi costate a D’Alì la condanna definitiva c’è proprio il suo rapporto con i Messina Denaro.

L’ultimo grande boss dell’era stragista è ormai in carcere. Le mafie di oggi sparano di meno e cercano sempre di più un posto al sole nell’economia, nella gestione dei fondi pubblici, nei settori sussidiati, nelle speculazioni immobiliari. Alle pallottole preferiscono l’arma soft della corruzione. Ecco allora una modesta proposta. Mentre magistrati e poliziotti continueranno a dar la caccia ai mafiosi, i partiti potrebbero iniziare finalmente a far terra bruciata intorno ai loro colletti bianchi. Potrebbero evitare certe candidature e certe nomine, anche prima che arrivino gli avvisi di garanzia. La latitanza di Messina Denaro è stata aiutata non solo da criminali, ma anche da “una fetta di borghesia“, ha detto il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia. Tenere la borghesia mafiosa il più possibile fuori dalla stanza dei bottoni, anzi magari addirittura contrastarla, può essere davvero soltanto un compito delle forze dell’ordine e della magistratura?

Ma vedrete che al prossimo giro, passata l’euforia sullo “Stato più forte della mafia”, ricominceremo da capo con lo stucchevole rimpallo fra “garantisti” e “giustizialisti”. Continueremo a vedere nelle liste candidati impresentabili. Continueremo a sentir dire che l’assoluzione in primo grado è una pietra tombale su qualunque comportamento meno che specchiato. E che, in modo speculare, una condanna in primo grado è acqua fresca, perché tanto bisogna aspettare la Cassazione. E se la Cassazione inopinatamente condanna, come nel caso di D’Alì, ormai sono passati anni e si può far finta di niente.

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