Cinema

Un bel mattino, il film francese prossimo al sublime con Lea Seydoux

La regia è di Mia Hansen-Love già autrice di almeno due titoli interessanti (Un amour de jeunesse, L’avenir) ma non così incredibilmente belli come quest’ultimo

di Davide Turrini

Rimanere estasiati di fronte ad un film (francese) all’apparenza banale. Capita nel 2023, quando ci sembra di avere già visto tutto (“c’è solo merda dopo The Fabelmans”, citazione reinterpretata da The Commitments). Il film in questione, che va visto subito, appena dopo aver letto questa recensione, s’intitola Un bel mattino. Titolo infingardo, peraltro, perché nel film un bel mattino sembra non arrivare mai ma potrebbe anche esserci sempre stato. L’ha diretto Mia Hansen-Love, compagna di Olivier Assayas, già autrice di almeno due titoli interessanti (Un amour de jeunesse, L’avenir) ma non così incredibilmente prossimi al sublime come quest’ultimo. C’è tutta l’allure sincopata di un racconto morale di Eric Rohmer, tinte pastello azzurro-verdi per attenuare l’aggressività cromatica da stereotipo ambientale (in minore – la livida Parigi -, in maggiore – una Parigi sfavillante-) nell’introdurre la protagonista Sandra (Lea Seydoux). Ragazza single di mestiere traduttrice simultanea con figlia decenne, padre filosofo (Pascal Greggory) in pensione affetto da una rarissima sindrome neurodegenerativa, e un vecchio amico, Clement (Melvil Poupaud), che si rivela un fidanzato passionale.

Sandra vive in un tipico ed angusto appartamentino parigino tutto angoli stretti e parquet scricchiolante. Deve dividere il suo tempo tra il lavoro convegnistico in cuffia o en plein air in mezzo agli anziani reduci sulle spiagge della Normandia; l’improvvisa fiammata sessuale di Clement, di mestiere cosmochimico, con moglie e figlio a casa; e il graduale e inarrestabile deteriorarsi dell’autosufficienza psicofisica del padre che dovrà essere trasferito in una casa di cura. In Un bel mattino tutto accade grazie ad impercettibili slittamenti narrativi e ad azioni tenuemente reiterate (il sesso e l’andirivieni di Clement; le visite al padre sempre più malato), mentre il tono espressivo sfuma in una serie di dettagli e sguardi luminosi centellinati con garbo, come del resto vengono evitate scene madri e/o apici drammaturgici.

La cifra di Hansen-Love metteur en scene (citiamo il ruolo professionale in lingua originale perché qui concettualmente calzante) sta proprio in questo controllo rigoroso di una forma semplice, mai eccessiva ed eccedente (“la storia è bella ma immagine e suoni sono molto aggressivi”, sentenzia morettianamente Sandra verso la figlia usciti da un film d’animazione). In Un bel mattino si racconta del resto di ciò che rimane nel corpo, nell’anima, nella mente, nel cuore (della protagonista) mentre inevitabilmente qualcos’altro di intimo e profondo sfugge per non tornare più. La metafora dolorosa del padre che perde gradualmente vista, conoscenza, percezione dello spazio e del tempo, ha poi un contraltare materialistico frutto probabilmente (lo deduciamo da una dedica familiare sui titoli di coda) di un’esperienza personale concreta della regista che ci riporta al tema duplice del brutale anonimato delle case di cura pubbliche per anziani (quelle private sono proibitive anche per la classe media) come al macigno etico della possibilità dell’eutanasia. E nonostante la presunta apparente scontatezza della trama tragico-romantica, Hansen-Love scava indirettamente un solco figurato, curvando il grande schermo del cinema fino a farlo diventare un realistico straziante specchio. Due brani del compositore svedese Jan Johansson chiudono il cerchio sensibile e persuasivo di un soundtrack dolcemente simbiotico.

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