Dicembre 2022 è stato un mese di uscite cinematografiche numerose, ben 49, delle quali 21 italiane. Ovviamente sogni di box office ridimensionati per tutti causa Avatar 2, ma la speranza di molti addetti ai lavori risiede anche nel biglietto d’avanzo: “se la sala Avatar è piena, magari entrano a vedere un altro film che sta per iniziare”. Invece gennaio schiera bei titoli, come la succosa commedia di Fabio De Luigi uscita l’1, una specie di Christmas Carol in coppia con Virginia Raffaele per una vita alternativa con figli: Tre di troppo. Ma giunti a metà mese, non sono sicuramente di troppo i tre film in uscita che ora proviamo ad esplorare un po’ meglio.

Grazie ragazzi è un remake cotto e mangiato di Un triomphe, dramedy francese del 2020 con Kad Merad. Nella versione di Riccardo Milani, il protagonista, un attore in discesa che troverà il suo riscatto artistico e sociale portando il teatro tra i detenuti di un carcere è invece Antonio Albanese.

Ha qualcosa di magico il loro sodalizio. Giunti al quarto film insieme attore e regista sono stati capaci di mettere in piedi un film solidissimo, corale, capace di far ridere di cuore quanto di far emozionare. Sodalizio accompagnato peraltro da Vinicio Marchioni il boss in cella Diego, Giacomo Ferrara Aziz, ragazzo arrivato in Italia da piccino sui barconi, Andrea Lattanzi come giovane borgataro Damiano. Giorgio Montanini invece è Mignolo, l’innamoratissimo marito scalmanato, e Bogdan Iordachioiu, il taciturno rumeno che avrà un’idea geniale sul Godot che porteranno in scena per sfida a se stessi.

È una storia sulla rinascita, sul riscatto sociale e sulla dignità dell’attesa dietro le sbarre, Grazie ragazzi. La presenza di Sonia Bergamasco, recentemente proprio a teatro Premio Ubu come Migliore attrice nella pièce Chi ha paura di Virginia Woolf? e dei veterani Fabrizio Bentivoglio e Nicola Rignanese impreziosisce anche il mondo del fuori. Interpretano infatti la direttrice del penitenziario, il regista teatrale ideatore del progetto e il secondino inflessibile. Titolo adatto a un pubblico trasversale, in sala dal 12 gennaio per Vision Distribution con una scommessa da 450 schermi, dopo il primo giorno di programmazione è già al terzo posto del box office.

Passiamo ad un film francese diretto da un italiano, Pietro Marcello, che prende un romanzo del pacifista russo Alexsandr Grin e lo ambienta in Francia, avvolgendo i suoi personaggi di una campagna quasi magica con immagini eteree e rarefatte ottenute da un lavoro manuale e certosino su vera pellicola, seppur ambientato all’indomani della Grande Guerra. Le vele scarlatte percorre la vita dura di un artigiano reietto perché ex-soldato, un roccioso e tenero Raphaël Thiery che sembra davvero uscito da una fiaba. La sua giovane sposa è morta per uno stupro, così lui crescerà la figlioletta in una famiglia aperta, un’affiatata comunità di persone ai margini che protegge con decoro e sensibilità la propria umanità e le proprie credenze.

A Marcello è caro il tema della matriarcalità che qui affronta nel suo film non femminista, come lui stesso suggerisce, ma femminile. Il quadro famigliare che ne emerge sembra oggi così attuale e possibile, vivo, non più relegato tra le pagine impolverate di un romanzo del 1923. Il femminicidio della madre, un accenno ai salari delle donne più bassi di quelli degli uomini e la forte indipendenza della giovinetta, Juliette Jouan, che s’innamorerà dell’avventuriero Louis Garrel, sono i segni con i quali il regista guarda ai suoi personaggi con mirabile armonia narrativa ed estetica. E a proposito di questa, Marcello, che genuinamente si definisce quasi autarchico, dosa con armonia tale alcune vecchie immagini d’epoca che si amalgamano perfettamente con il girato. Risultato per niente scontato.

Il vero principe azzurro resterà per la protagonista il papà falegname, mentre sarà la musica suonata su un vecchio pianoforte e cantata nuotando nel lago a tenerle più compagnia in un secondo tempo coming of age fatto di magia rurale. A proposito, le musiche originali del film sono firmate dal musicista Premio Oscar Gabriel Yared, e uscito anch’esso il 12, con 01 Distribution. Ma all’esordio in sala è fuori dalla top ten. Speriamo che il passaparola lo premi perché merita di essere gustato in sala.

Margot Robbie plays Nellie LaRoy in Babylon from Paramount Pictures.

Chiudiamo con Babylon, di Damien Chazelle. Con questo iperbolico omaggio al cinema il regista del Rhode Island riprende la centrifuga di sogni e successo che sono gli studios hollywoodiani, ma tira indietro il calendario agli anni venti. La La Land è un ricordo quasi sbiadito a confronto e qui si punta ancora più in alto, e pure molto più in basso. Il passaggio dall’Età dell’Oro del cinema muto alla rivoluzione del sonoro viene attraversata da un’incontenibile Margot Robbie con Nellie LaRoy, star in ascesa con tanto talento quanta follia. Al pari del produttore/attore Jack Conrad, Brad Pitt, entrambi iconici, magistrali e strabordanti attori in queste tre ore e dieci cariche di trasgressione, coca, orge, balli sfrenati e corsa al successo e al massacro. L’ossessione per il cinema, per la perfezione sul set, la poesia della luce perfetta le vediamo da fonici, registi e macchinisti. Chazelle è diventato un maestro nei piani sequenza, e qui ne costruisce da capogiro, insegnando al pubblico come si faceva il cinema ed esasperando la perdizione di un secolo fa. Si citano dei grandi della celluloide, lì contemporanei, un cammeo di un personaggio simile al comico Fatty Arbunkle, pingue festaiolo finito male negli anni trenta e s’inserisce, in maniera un po’ forzata, anche un montaggio di schegge di film che da lì sarebbero stati il futuro del cinema, da Kubrick a Avatar.

Si punta più in alto perché abbondano le scene piene, cariche di personaggi e azioni, di costumi comparse e scenografie. Insomma, un new-Fellini più barocco e oltraggioso se vogliamo, e perché le ambizioni e la fame ingorda di questi personaggi ultra-dannunziani li spingono oltre qualsiasi limite. Anche basso, appunto. E qui arriva il coraggio della Robbie, che si presta tanto alla iconica starità del suo ruolo quanto a momenti scioccanti, catarticamente tarantiniani. Eh sì, Chazelle spacca l’acceleratore oltre il massimo e getta via i freni, così Babylon, degno del suo titolo, rapisce lo spettatore scaraventandolo in un’esperienza cinematografica inusitata.

Curioso come ultimamente abbiamo a iniziato a considerare “esperienza cinematografica” i film di oltre due o tre ore densi d’immagini ed emozioni forti. Forse la reazione del Cinema e di chi l’ama contro l’arrembaggio delle piattaforme. Con tutta la sua prosopopea e ambizione, con i suoi pregi incontestabili e con i suoi difetti ipertrofici, l’ultima fatica di Chazelle resta un grande show splendidamente controverso. Da noi arriva il 19 gennaio con Eagle Pictures. L’anteprima stampa è stata vivace, con appaluso sentito ai titoli di coda dei ragazzi del Centro Sperimentale di Cinematografia, per una volta a costellare di belle speranze la solita platea dei critici. Potremmo già scommettere che dividerà anche il pubblico tra odio e amore. Ma i grandi film sono anche così.

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Un bel mattino, il film francese prossimo al sublime con Lea Seydoux

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