Moda e Stile

La Moda cerca i giovani, servono 94mila assunzioni entro il 2026: “Ricambio necessario, ma c’è divario tra le esigenze dell’azienda e la formazione offerta”

L'INTERVISTA - "Le aziende faticano purtroppo a trovare non solo giovani adeguatamente formati per le competenze specifiche richieste, si evidenzia anche la discrepanza tra la domanda del mondo del lavoro e la formazione", spiega Paolo Bastianello, imprenditore e presidente Comitato Education di Confindustria Moda

di Ilaria Mauri

Se il Made in Italy è oggi sinonimo di eccellenza nel mondo, questo lo si deve non solo ai baluardi del lusso ma anche alla filiera italiana del Tessile, Moda e Accessorio. Un sistema produttivo che affonda le sue radici nella rivoluzione industriale di fine ‘800 ma che ha saputo evolversi e tenere il passo dei tempi, puntando su un mix di artigianalità e innovazione che tutto il mondo ci invidia. Nel 2021 ha registrato un fatturato complessivo di circa 93 miliardi di euro, grazie al lavoro delle oltre 60 mila imprese con circa 550 mila addetti che lo compongono, e quest’anno – secondo le stime – si dovrebbe chiudere a quota 96,6 miliardi. Un comparto d’eccellenza variegato e molteplice di cui i brand dell’alta moda sono solo l’apice: include infatti anche realtà specializzate come le aziende che producono l’abbigliamento tecnico delle forze dell’ordine piuttosto che le tute degli astronauti. La potenza economica del settore e il suo valore strategico sono confermati anche dal prestigio di cui gode sul piano internazionale, ma, di contro, fatica a trovare giovani talenti che vogliano lavorarci. “Sembra paradossale ma proprio nel momento in cui cresce la voglia di Made in Italy nel mondo, si evidenzia anche la discrepanza tra la domanda del mondo del lavoro e le competenze offerte dal mercato”, ci spiega Paolo Bastianello, imprenditore e presidente Comitato Education di Confindustria Moda, la federazione italiana che riunisce le 7 associazioni che rappresentano le altrettante branchie che compongono la filiera del Tessile, Moda e Accessorio.

Servono giovani, serve un ricambio generazionale per proiettare nel futuro le nostre imprese”: dal rapporto 2022 Excelsior-Unioncamere emerge infatti che nel periodo 2022-2026 saranno necessarie dalle 63.000 alle 94.000 nuove assunzioni, a seconda della congiuntura economica per far galoppare le nostre aziende. “Il Covid ha dato un’accelerata a questo passaggio generazionale il che è certamente positivo, se non fosse però che ci ha colto impreparati“, sottolinea Bastianello. Le industrie, infatti, faticano a trovare profili adeguatamente competenti, in particolare quelli di tipo artigianale e di manodopera specializzata perché manca un raccordo fra mercato del lavoro e sistema formativo: “Scuola e lavoro devono collaborare al massimo. Il nostro Paese è secondo in Europa nel settore manifatturiero, abbiamo un patrimonio di conoscenze e competenze che deve essere tutelato e tramandato. Ci troviamo a fare i conti con un’alta disoccupazione giovanile (stimata a settembre dall’Istat a 23,7%) da una parte, e dall’altra con un’altrettanto alta richiesta di figure specializzate da parte delle aziende eppure questi due mondi ancora non riescono ad incontrarsi. Per questo è qui che stiamo concentrando tutti i nostri sforzi”.

Il Comitato Education è al lavoro per formare e reperire oltre 40 figure professionali di cui il settore è in cerca e di cui avrà sempre più bisogno nei prossimi anni: si va dalle professioni più tradizionali come addetti alla cucitura, Textile designer, Disegnatore Tecnico, Meccanico di tessitura, Orafo al banco e Addetto alla pianificazione della produzione; professioni più digital rese sempre più urgenti dalla transizione digitale, come E-Commerce Manager, Digital Analyst e Supply Chain Data Manager; professioni più verticali sul tema della sostenibilità, come Manager per Sostenibilità Ambientale e Product Life-Cycle Manager; e professioni più tradizionali come responsabili delle Risorse Umane e Periti Chimici. “Il problema – sottolinea Bastianello – è che i ragazzi sono ancora vittime del pregiudizio secondo cui lavorare nella moda significa fare gli stilisti. Ma non è così. Lo stilista è solo l’apice di una catena che si compone di tantissimi professionisti con una marea di competenze specifiche senza i quali il suo lavoro non avrebbe consistenza. Solo che – lo vedo con i miei occhi durante gli eventi di orientamento -: la formazione tecnica e il lavoro in azienda sono visti ancora come di serie ‘B’. Un dato: agli ultimi Talent Days, 8 ragazzi su 10 non conoscevano le branchie degli Istituti Tecnici“. “Quindi – chiosa – la nostra sfida è rendere sexy la filiera della moda, comunicare la bellezza e l’importanza di queste professioni, oltre che di un settore che traina il Pil nazionale. Ci tengo a dire ai ragazzi che lavorare in fabbrica oggi non ha niente a che vedere con l’immaginario degli anni ’50-’60, non sono più qui posti sporchi e fumosi”.

Così, grazie anche alla volontà di alcuni dirigenti scolastici degli istituti ad indirizzo Moda, nel 2019 si è arrivati alla firma del Protocollo d’Intesa con SMI – Sistema Moda Italia che ha dato il via alla Rete Tam, un organo che riunisce 18 accademie di Moda in tutta Italia con l’obiettivo di avviare un tavolo di confronto per una maggiore e migliore collaborazione tra scuola e imprese, a partire da una più efficace alternanza scuola-lavoro: “L’esperienza sul campo in questo caso è fondamentale, i ragazzi imparano più in due mesi di stage che in due anni dietro ad un banco. Però, purtroppo, sono bombardati da input che sminuiscono la dignità del lavoro, passa il messaggio che oggi la società premia chi diventa ricco facendo i balletti sui social piuttosto che chi manda avanti una fabbrica. Per questo poi i ragazzi non hanno più voglia di fare la gavetta. Il paradosso è che preferiscono andare a fare i camerieri all’estero piuttosto che lavorare in azienda in Italia. E vi assicuro che le figure professionali specifiche sono ben retribuite, soprattutto ora che le aziende sono costrette ad offrire cifre importanti per accaparrarsi i pochi professionisti disponibili. Poi certo, esistono anche i cosiddetti ‘contratti pirata’ e il lavoro nero, ma sono le mele marce del sistema, non la prassi”.

E per restare competitivo, questo comparto sta vivendo una fase di trasformazione e rapida evoluzione, in cui alcune professionalità scompaiono per far posto ad altre, o vedono cambiare radicalmente le proprie caratteristiche (in termini di competenze, e, conseguentemente, di mansioni), anche in vista degli impegni posti per la rivoluzione in chiave sostenibilità dall‘Agenda Onu 2030 per lo sviluppo sostenibile. Ecco, quindi, che per evitare di accrescere lo scollamento qualitativo e quantitativo fra domanda e offerta, è necessario incrementare e portare a sistema la collaborazione attiva fra la filiera formativa (offerta di diplomati e qualificati) e la filiera produttiva. “Il mondo ha voglia di Made in Italy. Questa evidenza oggettiva, testimoniata dalle performance positive di domanda che registriamo, pone il nostro settore nelle condizioni di poter essere un traino dell’economia italiana e di essere bandiera del bello e del ben fatto nel mondo – spiega ancora Basrianello -. Per poter essere in grado di giocare questo ruolo è tuttavia fondamentale riuscire a vincere la sfida della formazione: colmare il mismatch che oggi persiste fra il sistema formativo e la domanda del mondo del lavoro, spiegare il valore dell’istruzione tecnica e raccontare chiaramente cosa significa lavorare nel Tessile, Moda e Accessorio“. Per fare ciò, Confindustria Moda sta facendo quindi da traino tra i due mondi, “in primis cercando di creare un canale diretto tra giovani e imprese, lavorando fianco a fianco con le scuole affinché offrano un programma formativo che sia il più possibile in linea con quelle che sono le esigenze concrete delle aziende. Se infatti non si migliora la preparazione dei ragazzi, non si riuscirà mai a far coincidere domanda e offerta occupazionale. E poi sostenendo l’aggiornamento dei docenti, perché purtroppo i giovani diplomati o laureati non sono adeguatamente preparati, c’è un gap tra quelli che sono gli studi e quelle che sono poi le necessità pratiche del lavoro in azienda, mancano di esperienza”.

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