Cinema

Pinocchio, Guillermo Del Toro anima la favola di Collodi con meraviglia e audacia

Tante le licenze poetiche, le varianti narrative, le invenzioni stilistiche, insomma la libertà espressiva a tutto tondo, che Del Toro si prende per ridare vita come non avevamo mai visto al burattino più famoso del mondo

di Davide Turrini

È un Pinocchio fantasy e dark, canterino e (anti)fascistizzato, quello che Guillermo Del Toro anima con meraviglia e audacia creativa nell’omonimo film disponibile da qualche giorno su Netflix (e non più in sala). Tante le licenze poetiche, le varianti narrative, le invenzioni stilistiche, insomma la libertà espressiva a tutto tondo, che Del Toro si prende per ridare vita come non avevamo mai visto al burattino inventato di Carlo Collodi. Intanto la favola tardo ottocentesca originaria si trasmuta in fiaba del ventunesimo secolo. Perché il burattino birichino che fa ammattire il suo babbo (qui “pàpaa”), marinando la scuola e caracollando su palchi teatral-circensi di mezza Italia del Ventennio, non è più l’anima ribelle fanciullesca a cui fare l’ordinata moralina di fondo come da romanzo (pensate al grillo parlante qui anfitrione narrativo e amorevole compagno del protagonista e non fastidiosa coscienza moralista di riporto).

Pinocchio è invece giocosa, sincera e arcaica creatura di legno tutta chiodini e rattoppi materiali, liberata dall’apparente eterna immortalità che gli è concessa proprio dal fatato spirito del bosco color turchino, non trasformabile (… SPOILER … e non trasformato) in carne e ossa umane. Il Pinocchio che al posto dello studio sceglie la vita da celebrità temporanea di un palchetto sgarrupato e itinerante dal Piemonte fino alla Sicilia, dove l’eccentrico Mangiafuoco è una comparsa e l’antagonista principale è il Conte Volpe (Christoph Waltz) accompagnato dalla scimmietta sguercia Spazzatura (Cate Blanchett), è un’eccezione fisica molto contemporanea che attira l’attenzione del Podestà fascista (il mito dell’immortalità per la patria) come del Duce (un nanetto dalla super mascella futurista che mangia popcorn e sentenzia morte immediata per ciò che non apprezza). “Io sono il tuo padrone e tu il mio schiavo”, tuona il Conte Volpe verso il burattino che vorrebbe ribellarsi al destino di star malpagata e sottomessa.

E anche in questo Del Toro, assieme allo sceneggiatore Patrick McHale, orienta il coming of age pinocchiesco in qualcosa di più seriamente politico del più scontato rapporto di fredda autorità familiare o anagrafica a cui il protagonista non può comunque sfuggire. Del resto il rapporto affettivo tra Geppetto e Pinocchio, nato da una “pigna perfetta” sa più di magicamente misterioso e sacralmente naturale di quell’ieratico familismo anche qui del racconto collodiano d’origine. È come se Del Toro, caricato da una visione cromatica e onirica d’insieme, uscisse dall’autostrada della tradizione per seguire una sua mirabolante, densa, autentica strada panoramica in un mondo pinocchiesco popolato di animaletti mostrificati e creature fantastiche, di nerissimi e truci fascisti come fosse una porta aperta sul set del Labirinto del Fauno. Atmosfere che tendono all’oscurità, dunque, a mezza ombra in più dove potrebbe esserci uno spicchio di luce, ad un’idea di natura/bosco/borgo italiano/mare sferzata da nuance di cupezza dark. Splendida del resto tra le tante, è la soluzione visiva retrò dell’apparizione del pescecane su uno stretto di Messina minato e in tempesta come fosse una pagina del Moby Dick di Melville. Stimolante, oltretutto, nel turbine di deviazioni e reinvenzioni narrative (c’è tutto un grosso blocco da “balilla” di Pinocchio in totale e rischiosa derapage) è la puntigliosa carsicità con cui Del Toro colora il tono dell’opera grazie alla malinconica dolcezza di alcuni brani musicali cantati, in forma di musical in controluce, da Pinocchio o Geppetto.

Infine, anche se da qui saremmo dovuti partire nella recensione, tecnicamente la creazione artigianale delle figure, veri pupazzetti, marionette, animaletti e mostri fantastici alla Del Toro, è un “esercizio artigianale di intaglio, pittura e scultura” che lascia senza parole e a cui viene aggiunta una strabiliante ricchezza di movimento manuale, la stop motion delle origini, compresa la sintesi finale in digitale per pulire intrusioni umane del team di animazione e ad annerire, ombreggiare, fantasticare sfondi, pareti e cosmogonia tutta. Il consiglio, ovviamente, è vederlo in originale per apprezzare l’uso dell’italiano in molti intercalari della folla, o per Pinocchio che deforma inconsapevole Duce in “dolce”, e per la delicatissima tonalità della voce di Ewan McGregor che fa pulsare un tenero grillo parlante, scrittore delle sue mille avventure nel mondo che vive e muore materialmente, inquadratura suprema e assoluta, nel cuore di Pinocchio.

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