“Il mio primo maestro è stato Maurizio Seno, docente a Coverciano. Nel 1983 avevo 21 anni e partecipai al primo corso allenatori di giovani calciatori, organizzato in collaborazione con l’Isef di Padova. Continuai a frequentare Seno anche in seguito, da Bassano andavo a Mestre un paio di volte alla settimana per assorbire da lui più informazioni possibili. Mi portò al Calcio Padova nel 1986, aprendomi le porte del calcio professionistico: con i Giovanissimi vincemmo il campionato italiano giocando a zona, che in quegli anni era una ‘pazzia’ tattica da pochi utilizzata in Italia”. Entrato in Figc nel 2010, il sessantenne Maurizio Viscidi oggi è il coordinatore delle nazionali giovanili azzurre. Diplomato con lode all’Isef di Padova, ha ottenuto con il massimo dei voti l’abilitazione di allenatore professionista di prima categoria (Uefa pro) nel 1997 con la tesi “I movimenti d’attacco nel sistema 4-3-3”. Ha allenato Alessandro Del Piero nel vivaio patavino, poi ha lavorato in quello del Milan. Ha collezionato 200 panchine in Serie C e 78 in B. “Seno era un grande metodologo già allora. In quegli anni la maggioranza degli allenatori lavorava in modo analitico. Esisteva soltanto il binomio giocatore-pallone e poi alla domenica si giocava la partita. Lui invece mi ha spiegato che il calcio è uno sport di situazione e che in allenamento si devono fare appunto cose situazionali. Due contro due, quattro contro quattro, sei contro sei… sono passati 40 anni e purtroppo non tutti ancora lavorano così”.

In cosa devono essere bravi dunque gli allenatori?
“A trovare le situazioni giuste durante gli allenamenti. Faccio un distinguo. Nel tiro con l’arco basta una metodica analitica perché in gara può esserci più o meno vento, ma sono poche le situazioni ‘diverse’ che possono intervenire. Nel calcio invece un atleta ha dieci compagni, undici avversari, un pallone, un territorio da invadere, addirittura ci sono più momenti senza palla che non con la palla. Ma come fai a imparare a giocare senza palla se fai solo lavoro analitico?!”.

Altre figure importanti per la sua formazione?
“Seno si era formato alla scuola di Christian Bourrel, uno dei tecnici più importanti di Clairfontaine, la Coverciano francese. Considero lui il mio secondo maestro. Fino ad allora lavoravo nel settore giovanile del Bassano. Lavoravo con un sistemo analitico, certamente ben curato, ma fuori dal contesto di gioco. La situazione è un ponte tra la tecnica individuale e la partita, per i ragazzi è un salto troppo lungo passare da uno contro zero a undici contro undici”.

Dopo la brillante carriera nelle giovanili ha faticato nel calcio professionistico dei grandi. Perché?
“Nei settori giovanili i ragazzi ti seguono per definizione, in prima squadra è più complicato. I calciatori preferiscono avere compiti da eseguire piuttosto che problemi da risolvere”.

Il terzo maestro in ordine cronologico che vuole citare?
“Non è una persona, ma un club intero. Venni chiamato dal Milan nel 1991. Sacchi stava lasciando e in prima squadra trovai Fabio Capello, con lui il rapporto non fu così buono ma in modo indiretto Capello e il Milan sono stati dei maestri. Avevo chiesto espressamente di poter vivere a Milanello ed ho imparato tanto da quella squadra: come giocava, come si allenava, come si comportavano i calciatori fuori dal campo, come si riposavano, come preparavano le partite…”.

Poi ha incrociato davvero Arrigo Sacchi nella sua carriera.
“Mi ha voluto come suo collaboratore in Nazionale nel 2010 e per quattro anni sono stato il suo vice. Dopo anni di studio quelli li considero come il mio Master. Sacchi è stato un vero maestro anche come dirigente, per esempio ha avuto l’intuizione di vedermi in un ruolo che io non pensavo di saper ricoprire. Con lui sono stati quattro anni intensi e per certi versi difficili. Il suo motto è ‘nella vita o si dà tutto o non si da nulla’. E se a mezzanotte ti chiama per chiederti una slide, tu resti sveglio la notte perché alle 8 del mattino sia tutto pronto. ‘Si può fare sempre meglio’ ripete spesso. Gli devo tutta la seconda parte della mia carriera”.

Lei si sente un maestro?
“Sicuramente più insegnante che allenatore, me lo dicono sia gli allenatori che ho oggi in Nazionale sia coloro che ho allenato in passato. A me piace studiare, insegnare, divulgare”.

Qualche erede nel suo ruolo lo intravede?
“No, perché la mia è una figura nuova. Mi sento l’allenatore degli allenatori dall’Under 15 alla Under 21. Con i ct parlo, condivido idee e progetti, faccio briefing prepartita e riunioni post gara. Nel calcio ci sono molti allenatori bravi e responsabili di settore giovanile altrettanto bravi ma pochissimi direttori tecnici, quest’ultima sarà una figura molto presente nel calcio del futuro”.

Come si individua un allenatore bravo?
“È più facile vedere un giocatore bravo. Di un allenatore è visibile solo una parte piccola: la gestione dello spogliatoio non la intuisci subito né in partita né in allenamento. L’espressione del gioco della squadra può aiutare a capirne la mentalità. Una visita ad un allenamento può evidenziare se il mister è in possesso di una buona didattica. Il suo carattere lo si può intuire dai colloqui. Magari interpellando i giocatori, che in questo sono onesti e dicono sempre cose interessante sul loro allenatore e vanno dunque tenuti in considerazione. Ma di sbagli io ne ho fatti tanti. ‘L’allenatore è come un melone, finché non lo assaggi non sai se è buono’, mi diceva sempre il mio direttore Riccardo Sagramola. Insomma, capisci se è bravo veramente, quando ce l’hai in casa”.

Si fa scouting sugli allenatori?
“Quasi nulla, manca completamente il ruolo, ma in futuro ci sarà. Al momento la scelta di un allenatore è troppo empirica. Io in Nazionale faccio schede sui ct come esistono quelle sui calciatori. Ricordo un solo direttore sportivo, Sartori, allora al Chievo, che venne in campo a vedere come allenavo alla Lucchese. Poi il presidente tra i due scelse Silvio Baldini”.

Cos’è l’indice di pericolosità?
“È un paramento oggettivo per capire se si è meritato di vincere la partita. Credo sia lo studio più importante che ho fatto”.

Come si misura la salute di un movimento calcistico nazionale?
“Si usano i ranking Uefa Under 17 e Under 19, al momento siamo rispettivamente terzi e quarti in Europa. Prima di Sacchi eravamo al 17esimo. Quello di oggi è il miglior risultato di sempre per la Nazionale italiana”.

Oggi il calcio è globalizzato?
“Sì, in Armenia per esempio giocano a calcio come si deve giocare al calcio. In questo senso c’è un livellamento e non si può più parlare di aspetti locali, succede dai primi anni duemila e dall’avvento di internet”.

Di cosa è orgoglioso di ciò che ha fatto da allenatore?
“Ho avuto la fortuna di allenare un giovane Alessandro Del Piero a Padova, poi diventato campione del mondo, ovviamente non per merito mio. Ma almeno so di non averlo rovinato. A Padova lo aveva portato Vittorio Scantamburlo, ecco lui è stato un mio maestro per lo scouting di giovani calciatori”.

Racconti.
“Con una sua terminologia in veneto e alquanto colorita, che andava sempre tradotta, sapeva descrivere un giocatore in maniera perfetta. Aveva un occhio impressionante per individuare un calciatore”.

Oggi ci sono osservatori di questo tipo?
“Non tanti, ma manca più di ogni altra cosa il talento. Adesso sarebbe in difficoltà perfino Vittorio”.

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