Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Beh sì, data l’età, potrei definirmi un maestro”. In effetti Sandro Gamba di anni ne ha 90, compiuti nel giugno scorso, e una carriera ricca di successi sia da giocatore (dieci scudetti vinti), che da allenatore (cinque campionati italiani, due Coppe dei Campioni e un Europeo con la Nazionale). “Non mi lamento, vado ancora al palazzetto, incontro vecchi amici e scrivo qualche articolo”.

Si sente più un ex giocatore o un ex allenatore?
“Scusi l’immodestia, ma credo di aver fatto bene sia come giocatore che come allenatore. Però mi divertivo più a giocare che ad allenare”

Come iniziò la sua avventura con la pallacanestro?
“Iniziai con il basket per caso. Stavo giocando con altri bambini e venni ferito da una raffica di mitra a Milano negli ultimi giorni di guerra tra partigiani e fascisti. Volevano amputarmi la mano. Ma mio papà ha detto: aspettiamo un momento. Gli americani presenti in quei giorni a Milano mi dissero: prendi in mano questo pallone e inizia a dargli schiaffi. All’inizio mi faceva male. Ma poi quel pallone mi è rimasto in mano tutta la vita”.

Iniziò con l’Olimpia Milano dove si sviluppò quasi tutta la sua carriera da giocatore.
“Feci Allievi e Juniores e passai subito in A con Cesare Rubini che mi disse di andare ad allenarmi in prima squadra. Poi finii nel giro della Nazionale e nel 1960 ero il capitano degli azzurri arrivati quarti ai Giochi olimpici di Roma”.

I suoi maestri chi sono stati?
“Cesare Rubini mi ha allevato come giocatore. Era un’epoca nella quale gli allenatori non erano in grado di insegnare. Ti insegnavano solo ad andare in campo. Oggi i giocatori sanno tutto”.

Rubini è stato un pezzo unico dello sport italiano. Da atleta ha vinto sei scudetti (oltre ad un oro olimpico) nella pallanuoto e altrettanti scudetti nel basket. Poi da allenatore dell’Olimpia Milano ha conquistato nove campionati italiani e una Coppa dei Campioni.
“Da lui ho imparato il modo in cui condurre la squadra. Sapeva tenere uniti i giocatori. Ma la vecchia generazione di allenatori non dava istruzioni tecnico-tattiche ma utilizzava soprattutto tanto buon senso”.

Altri maestri?
“Jim McGregor in Nazionale negli anni Cinquanta. Mi insegnò a migliorare la difesa e studiò un sistema d’attacco nuovo”.

Poi?
“Giancarlo Primo, ct della Nazionale alle Olimpiadi di Roma. Primo privilegiava la tecnica individuale, in Nazionale non hai tempo di imparare molto, ma se un allenatore è bravo spurga più difetti possibile da un giocatore. In più la Nazionale regala ai giocatori esperienza internazionale”.

Andare all’estero è fondamentale?
“Decisi di fare l’allenatore e iniziai ad andare in America non meno di un mese all’anno per imparare. Ho sempre avuto voglia di aggiornarmi fino alla fine della mia carriera. Ogni estate cambiavo città: Filadelfia, New York, Kansas City, Los Angeles. La mia scelta cadeva sempre dove c’erano i migliori. Venivo pagato da club, federazione o Coni”.

Cosa si portava a casa da quelle esperienze?
“Dagli States tornavo con un bagaglio tecnico-tattico incredibile, loro sono sempre stati avanti. Nell’organizzazione dei campionati. Nell’insegnamento. Nella specializzazione. In tante cose”.

Faccia un nome.
“Bob Knight dell’Università dell’Indiana. Ero giovane, e sono andato spesso a trovarlo. Ci parlavo, mi dava gli appunti. Ha migliorato molto il mio sistema di allenamento”.

Se le dico Los Angeles?
“John Wooden, il grande papà di tutti allenatori”.

Andava da solo in America?
“Sì, e non trovavo mai nessuno di italiano. Ma so che anche Primo ci andava”.

Preferiva allenare un club o la Nazionale?
“Con il club mi divertivo di più. Però l’argento alle Olimpiadi di Mosca e poi l’oro agli Europei del 1983 sono le medaglie più importanti della mia carriera. A Mosca mancavano gli americani altrimenti arrivavamo terzi. Quella finale non era facile da vincere, i russi erano superiori atleticamente e si preparavano da anni per l’appuntamento. Noi giocavamo bene, ma loro sembravano una squadra di club”.

Romeo Sacchetti può essere considerato un suo allievo?
“Ha giocato per me e noi allenatori facciamo così: mettiamo tutte le esperienze insieme e poi diventiamo allenatori buoni, cattivi o eccellenti. Romeo è stato un mio giocatore a Torino e in Nazionale. Come allenatore e come persona viaggia in prima classe. Uno che conosce il basket. Non so cosa sia successo con la Nazionale, ma sono dispiaciuto. Lui è uno che insegna bene la pallacanestro. È molto appassionato, uno studioso. Puntiglioso”.

Ci sono punti in comune con il suo modo di allenare?
“Utilizza un sistema organizzativo simile al mio. Arriva in palestra con già tutto scritto. Non perde nemmeno secondo utile. Ha sempre avuto un bel cervello cestistico anche da giocatore”.

Lei come allenava?
“Non lasciavo nulla al caso. Poi arriva qualcosa di non previsto nella partita e devi essere pronto ad adattarti. Io allenavo la squadra in modo che il numero di errori fosse ridotto al minimo. Non parlo di errori al tiro, perché quelli possono succedere, ma di passaggio e di esecuzione. A questo ci si arriva con molto allenamento. Nel calcio ci sono un mucchio di sbagli ma lì si gioca con i piedi. Nel basket si gioca con le mani e in via teorica può esserci un possesso di palla totale”.

È stato un allenatore severo?
“Io ho sempre cercato di insegnare la pallacanestro quella vera. Sei o sette errori in una partita e già mi incazzavo come una bestia”.

Qual è l’errore più diffuso per un coach?
“Molti allenatori fanno parecchi errori nella scelta dei giocatori. Il segreto della Nazionale 1983 è stata proprio la scelta dei giocatori e la fortuna di averne di buoni in quel periodo. Ma a volte alcuni sono bravi in campionato e non in nazionale”.

La scelta di Recalcati accanto a Pozzecco ct della Nazionale le piace?
“Bella idea, Charlie ha fatto mille campionati, può dare i giusti consigli”.

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