Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Ho continuato a frequentare i miei maestri, andando a trovarli a casa anche quando non lavoravamo più insieme. Io non dimentico chi mi ha fatto del bene”. Davide Cassani da ciclista ha partecipato nove volte ai campionati del mondo, poi è stato una delle seconde voci Rai più apprezzate di sempre nello sport. Dal 2014 al settembre 2021 ha svolto il ruolo di commissario tecnico della nazionale italiana.

E oggi che fa?
“Guardo il ciclismo in tv e tre, quattro volte alla settimana esco in bici perché mi fa stare bene. Nel 2024 mi piacerebbe fare una squadra. Sarebbe un sogno. No, non farei direttamente io il direttore sportivo”.

La conclusione del rapporto con la federazione è stata traumatica. Alle ultime Olimpiadi di Tokyo, dopo le gare su strada, è stato costretto a tornare a casa prima di vedere il quartetto di Ganna vincere l’oro.
“Ho smaltito subito. Bisogna mettersi tutto alle spalle e guardare avanti. Le delusioni svaniscono nello stesso istante in cui le vivi. Sono ben contento di dove sono adesso”.

Chi sono stati i suoi maestri?
“Giancarlo Ferretti l’ho avuto sei anni come direttore sportivo, per più tempo di qualunque altro. È stato un grande ds, è riuscito a tirare fuori da me il massimo. Mi ha insegnato tanto. Abitavo vicino a casa sua e così andavo e tornavo dagli allenamenti in ammiraglia con lui. Avevo la possibilità di ascoltare le sue lezioni. Io sono sempre stato curioso e facevo in continuazione domande, lui era contento di rispondere. Mi ha spiegato il modo in cui si gestisce una squadra, ogni ciclista può avere un giorno la sua possibilità da giocarsi. Ferretti aveva un forte concetto di squadra: un sistema per far andare tutti forte. È stato determinante per la mia crescita. Al mio primo anno da ct, l’ho voluto al mio fianco”.

Nel libro appena uscito per Rizzoli “Ho voluto la bicicletta” cita anche Bruno Reverberi.
“L’ho avuto quattro anni, è colui che mi ha fatto diventare professionista. Senza di lui magari non sarei passato… Un carattere da sergente di ferro, un po’ come Ferretti. Buoni che esigevano molto. La Termolan nel 1982 era una squadra con tanti neo pro. Con lui ho capito cosa avrei trovato nel mondo del professionismo, le difficoltà e tutto il resto”.

Da dilettante ha avuto qualche maestro?
“Pino Roncucci. Un saggio. Mi ha dato la possibilità di mettere in mostra le mie qualità in una squadra che era la più importante dell’Emilia Romagna. Avevo tanti compagni bravi e vincevamo molto. I primi rudimenti me li ha trasmessi lui. Paziente, calmo, tranquillo”.

Il più simile a lei?
“Forse proprio Pino Roncucci, gli altri avevano un carattere diverso dal mio. Roncucci e… Alfredo Martini. Figura emblematica del ciclismo, Alfredo è stato il grande saggio. Mi ha convocato 9 volte in nazionale. Mi considerava un suo allievo ed io ho sempre considerato lui il mio maestro. Ha condotto la nazionale per 23 anni. È stato nel mondo il biglietto da visita del ciclismo italiano. Aveva tutto, dalla conoscenza alla pazienza. Quando parlava, tutti lo ascoltavano. Una risorsa per il ciclismo italiano”.

Lei come lo chiamava?
“Semplicemente Alfredo. Ho cercato di avere anch’io la sua calma e la sua onestà intellettuale. E di far sentire tutti importanti dal capitano all’ultimo dei gregari. Io sarò sempre orgoglioso di questo: da ct la mia squadra si è sempre comportata da squadra. Io ero il suo uomo di fiducia. Poteva contare su di me, pur non essendo né il capitano né un campione. Le mie qualità erano quelle di chi sa mettere d’accordo in corsa più campioni provenienti da squadre diverse, riuscendo a dare un’organizzazione. Io per la maglia azzurra ho sempre dato tutto”.

Quali sono i momenti che ricorda con più piacere?
“Sono andato forte soprattutto nei mondiali conquistati da Fondriest e Bugno. Sono legato a entrambe le due giornate, sono vittorie che sento anche mie. Maurizio e Gianni sono stati due campioni veri. Hanno trionfato per merito loro, di Alfredo e dei compagni. Quando succede in questo modo, è molto bello. Anche perché loro, che sono due amici umili e sinceri, sono i primi a riconoscerlo”.

Chi è stato da ct il suo Cassani?
“Matteo Trentin e alle olimpiadi Damiano Caruso. Matteo mi dava sicurezza. Sapevo che era un regista straordinario in grado di gestire al meglio la squadra. Sa leggere la corsa e sono convinto che potrebbe diventare un bravo ct”.

In Rai ha avuto dei maestri?
“Cacchio, eccome! Ho lavorato con Adriano De Zan, Auro Bulbarelli e Francesco Pancani. Se io sono stato bravo è perché ho avuto la fortuna di avere accanto persone così. Il telecronista valido è quello che riesce a creare un gruppo che poi rende gradevole la telecronaca”.

Allievi al microfono?
“No, perché Martinello è stato un mio compagno di viaggio bravo come e più di me”.

La televisione è una parentesi conclusa?
“Sì, diciotto anni di tv sono tanti. Troppi”.

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