Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

————————————————————————————

“Non ho mai visto un allenatore tirare a canestro, tanto meno da tre. Ai miei giocatori ho sempre detto: io sono nelle vostre mani, non nascondetevi mai dietro di me. E ricordate che non adoro l’adrenalina, vivo anche senza, preferisco a un minuto dalla fine essere a più dieci e con la palla in mano”. Bogdan “Boscia” Tanjevic, nato in Montenegro nel 1947, è cresciuto a Sarajevo. Si sente ancora oggi jugoslavo nonostante il Paese non esista più da trent’anni e lui viva in Italia da quaranta. Il suo palmares da allenatore di pallacanestro è impressionante, soprattutto considerando il fatto che spesso ha trionfato con squadre non date inizialmente come principali favorite. Con i club ha vinto in Jugoslavia, in Serbia, in Francia, in Turchia e in Italia. Nel 1979 con Bosna di Sarajevo ha alzato una storica Coppa dei Campioni. Con la nazionale ha conquistato un argento europeo (Jugoslavia), un oro (Italia) e un argento mondiale (Turchia). “Tutto è nelle mani dei giocatori: l’allenatore deve essere fortunato ad avere in squadra quelli giusti, perché alla fine di un match la tattica salta sempre e l’arbitro mette il fischietto in tasca”.

Coach, lei si sente un maestro?
“Mi sono sempre sentito più un maestro, nel senso di educatore, che un allenatore. Una specie di professore di liceo che spiega ai suoi alunni cosa fare. Cerco di usare con i ragazzi la logica delle cose. Meglio vincere o perdere? Ecco, allora andiamo fuori a lavorare!”.

I suoi maestri?
“Bora Stanković, maestro anche di vita. Se ce ne è stato uno, lui fu il fondatore Fiba. Mi ha allenato due anni a Belgrado. Aveva uno charme enorme, ti spiegava una cosa facendotela capire con una battuta. Non l’ho mai visto litigare con nessuno. Spero di assomigliargli. L’allenamento inizia con una battuta, per poi fare uno sforzo enorme in palestra. Scherzare e comandare, insomma. In nazionale A per una decina di gare ho avuto Ranko Žeravica. Fu il successore di Aza Nikolic, che non è mai stato il mio allenatore: feci il suo assistente all’Europeo vinto nel ‘77 e poi lo chiamai come collaboratore a Trieste”.

Poi?
“Mirko Novosel, conosciuto quando io ero già allenatore: mi ha messo ad allenare i giovani della nazionale. Avevo 26 anni: ti immagini una cosa così in Italia? Nel ‘74 ho vinto l’europeo Juniores come allenatore. Mirko pensava al futuro. Aveva coraggio. Di cosa devi avere paura? Nessuno ti spara, se sbagli! Da questi uomini si impara sempre, ti lasciano qualcosa nel cuore e nella testa. A tutti ho voluto un gran bene, ricambiato”.

E allievi ne ha?
“Quarantasei anni da capo allenatore… qualcuno penso di averne. Ma non dico i nomi, se qualcuno si sente di esserlo, lo dirà eventualmente da sé. Io spero di aver trasmesso il mio modo di allenare. La parola chiave è intensità. E poi serve tanta passione. Bisogna credere nei giovani, anche quando hanno 15 anni. Per me i giocatori sono come figli. Il rapporto allenatore – giocatore è pura poesia: se sei nato per fare questo lavoro, vivi per queste relazioni”.

La sua prima volta con la pallacanestro?
“Quando ero piccolo ho visto una struttura statale a Sarajevo, dove c’era la possibilità di provare tutti gli sport. Ho guardato per la prima volta una partitella, in pratica mi sono trasferito lì dopo la scuola”.

Come ha iniziato ad allenare?
“Sono nato in Montenegro da genitori montenegrini. Ma già nel 1951 ci siamo spostati a Sarajevo, papà era un ufficiale di guerra. Io dico che ho la nazionalità sarajevese, culturalmente quanto meno. A 18 anni sono andato a studiare e a giocare a Belgrado e nella capitale mi sono sposato nel ’69. Poi nel 1971 mi è arrivata la proposta dal Bosna per allenare”.

Aveva solo 24 anni ed era ancora un giocatore.
“Parallelamente mi aveva chiamato la squadra di Oriolik, a 200 km da Belgrado. Quest’ultima offerta era economicamente più allettante, il club è stato il primo in Jugoslavia a pagare bene i giocatori. Io da scemo ho detto sì per fare l’allenatore, a Sarajevo avevo ancora tanti vecchi amici e mi innamorai del progetto del Bosna. Era una società senza soldi, ma con una bella selezione di lungagnoni giovani, alti più di due metri, che non avevano mai giocato nella massima serie. La squadra militava in seconda divisione jugoslava, senza una storia alle spalle. Abbiamo lavorato come in trance grazie ad un grande entusiasmo e al potere dei sogni. In otto anni arrivammo a vincere la Coppa dei Campioni senza americani, cosa che eccetto la Cska Mosca – in pratica la nazionale sovietica – non era mai riuscita a nessuno”.

Oggi per chi tifa?
“Io sono internazionalista, anche politicamente. Vivo in Italia da 40 anni e mi ha dato tutto. Poi sono nostalgico del mio Paese natale e tifoso della Turchia, dove ho allenato tanti anni. Per me è una situazione difficile ma per certi versi facile perché ho tante squadre a disposizione”.

Come le sono sembrati gli ultimi europei?
“La nazionale italiana ha espresso lo stesso tipo di gioco dell’anno scorso, quasi obbligato non avendo un centro da 2,15 ma un mezzo pivot come Melli, che per gioco e leadership paragono a Dino Meneghin. Inoltre l’Italia ha guardie veloci con capacità di penetrare e di tirare. Una squadra così dà problemi ad avversari come la Serbia. È mancato poco all’Italia contro la Francia, aveva praticamente vinto e poi la Polonia sarebbe stata battuta”.

Slovenia e Serbia?
“Hanno entrambe fatto prestazioni inferiori alle aspettative. La Slovenia ha dimostrato un gioco non fluido come cinque anni fa e anche i suoi leader sono andati al di sotto del loro talento e della loro capacità. La Serbia ha subito infortuni pesanti come Avramovic prima e Nedovic poi. La Serbia con un pivot vero doveva avere più sicurezza nel tiro da fuori. Il finale drammatico con l’Italia era preventivabile ma in quel momento cruciale sono usciti i demoni. È andata in crisi. Perché è emerso il ricordo nelle gambe, non solo nella testa, della sconfitta con l’Italia di un anno prima a Belgrado”.

Perché si sente ancora oggi jugoslavo?
“La Jugoslavia era un Paese serio, oggi solo la Slovenia è una democrazia credibile. Forse anche la Croazia. La Jugoslavia era un Paese socialdemocratico, con un solo partito, quello comunista, ma abbastanza libero. Esisteva l’oppressione per evitare pericoli tipo quelli in Ungheria e in Cecoslovacchia dopo la Seconda guerra mondiale. Poi pian piano ci fu una sorta di liberalizzazione. Allora tutte le città erano sviluppate. Tito era un autocrate, ma non oppressivo. Se ti capita un leader onesto e capace, il Paese va avanti. Se invece ti capita un idiota, sei nella merda. Ci sono più oppressioni oggi in questa democrazia del cazzo, nella quale si continua a seminare odio pur di stare al potere”.

E lo sport come era allora?
“I campionati erano un’altra storia, oggi sono ridicoli: squadre ridicole, poco interesse e poca qualità”.

Ha voglia di tornare ad allenare?
“Io ho finito di allenare nel 2017, non ho più tempo. Ormai lo spagnolo Aito, oggi al Girona, si sta avvicinando al mio record di longevità in panchina…”.

Articolo Precedente

L’ultimo assurdo effetto della guerra tra Coni e governo: Malagò si crea il suo registro nazionale dello sport

next