Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Prima hanno iniziato a marciare i miei fratelli Giorgio e Maurizio, poi hanno tirato dentro anche me come allenatore. Mi sono formato studiando i metodi dei mezzofondisti finlandesi e applicando le loro teorie, così ho cambiato l’allenamento della marcia in Italia. Un tempo si facevano tanti chilometri a ritmo lento, mentre io facevo lavorare i miei fratelli a ritmo medio, beh oggi c’è stata un’ulteriore evoluzione e si fanno parecchi chilometri a ritmi elevati”. Da cinquant’anni Sandro Damilano è un allenatore di atletica leggera, specialità marcia. Nel 2010 è diventato capo allenatore della nazionale cinese dopo esserlo stato di quella italiana. I suoi numeri sono da record. Come allenatore personale ha conquistato 81 medaglie, tra cui 11 olimpiche, 16 mondiali e 11 continentali. “Se allora avessi conosciuto la marcia come la conosco oggi, Giorgio e Maurizio avrebbero vinto ancora di più”. Maurizio comunque non ha vinto poco. È stato campione olimpico a Mosca 1980, 2 volte bronzo a Los Angelos ’84 e Seoul ’88 e due volte campione mondiale della 20km. Nel corso della carriera ha conquistato 15 medaglie nei maggiori eventi mondiali. “Con loro ero più agitato nell’attesa della gara, ero più coinvolto. Ma le soddisfazioni erano indubbiamente maggiori”.

Quale differenza c’era tra i due fratelli gemelli Maurizio e Giorgio, il quale arrivò nel 1979 al titolo nazionale?
“Nei test di corsa la differenza era minima. VO2 max identico, velocità di innesco uguale. Ma nella marcia la grande differenza è data dalla tecnica: trionfa chi riesce ad avere una marcia con un dispendio energetico minore e questa era la differenza fra loro due”.

Lei ha avuto maestri della disciplina?
“Nella marcia mi ha aiutato molto il grande Pino Dordoni, per il periodo in cui allenavo anche nel calcio considero un mio bravo maestro Giovanni Trapattoni. Andavo nello spogliatoio della sua Juventus. Oggi quando perdi palla, dalla panchina chiedono aggressività e di tenere la difesa alta. Il Trap invece urlava: torna indietro, torno indietro! I miei fratelli si allenavano alla Sisport e condividevano lo stesso medico della Juve, il dottor La Neve. Il Trap sapeva come comportarsi in uno spogliatoio in cui c’era gente con la personalità di Platini, Tardelli e Scirea. Michel una volta mi ha chiesto quanti chilometri in allenamento facessi fare ai miei fratelli e si è messo le mani in testa, intanto metteva cento tiri nel sette e mi diceva ‘per me conta di più questo’. Un personaggio senza troppa puzza sotto il naso. Gaetano invece mi dava del lei: le darò del tu quando diventerò anch’io un allenatore, mi disse”.

Lei è stato allenatore di calcio in Serie D e Eccellenza per tanti anni. Ha smesso?
“Sì, marcia alla mattina e al pomeriggio e pallone alla sera. Ma da quando ho iniziato ad allenare i cinesi non riuscivo più a conciliare le due cose”.

Faceva correre molto le sue squadre?
“Cinque campionati vinti, uccidendo gli avversari sul piano fisico. Ma non era solo quello, c’erano anche delle idee. Ritenevo che schemi e tattiche fossero importanti ma la cosa principale che cercavo di ottenere era un’idea precisa di gioco ben organizzato. Fino a qualche anno fa il calcio mi mancava. Il Saluzzo in Serie D mi aveva pure richiamato ma non me la sentivo più”.

Differenze tra i due sport?
“Nel calcio devi incidere collettivamente, dal punto di vista mentale è più difficile. In un gruppo di 20 persone qualche mugugno c’è sempre. Oggi se qualcuno del mio gruppo di marciatori non fosse contento, io lo lascio tranquillamente ritornare in Cina. Ma solo se non ha possibilità di vincere qualcosa di importante. Sennò sopporto. Scherzo…”

Con i cinesi ha iniziato nel 2010.
“Sono stato fortunato perché dopo sei mesi dal primo contratto con la Federazione, abbiamo vinto tutto ai Giochi asiatici e si è istaurato da subito un rapporto di fiducia, così le cose si sono incanalate nel migliore dei modi. Prima di me la Cina aveva vinto poco, con me cinque medaglie olimpiche a Londra, quattro a Rio e purtroppo solo una Tokio, ma anche 9 medaglie ai Campionati del Mondo”.

Quanto tempo passa in Cina?
“Ci andavo due volte all’anno per tre settimane, in concomitanza con le gare più importanti. Ritornerò a marzo dopo gli anni di assenza per via del covid. Ora a Saluzzo lavoro con otto atleti cinesi, sei uomini e due donne. Un gruppo giovane con qualche punta di diamante e qualche speranza di aumentare il bottino personale”.

Come comunica con loro?
“Parlo molto con le mani, utilizzo la gestualità, faccio vedere video. Durante gli allenamenti, zero problemi. Più difficile nel pre-gara entrare nella loro testa e a volte durante la gara non ci siamo capiti e la cosa ci ha penalizzato nel risultato finale. Spesso i cinesi sono ragazzi volenterosi, che vogliono arrivare e non creano problemi. Con gli italiani si discuteva di più, anche se l’ultima parola è sempre spettata a me. Con i ragazzi e le ragazze che conosco da più tempo il dialogo è maggiore. Liu Hong – quattro mondiali di seguito e una volta seconda – parla inglese e il rapporto è più stretto, tanto che mi chiama nonno, che in cinese si dice yéye”.

Capitolo Alex Schwazer.
“All’inizio non conosceva la specialità e i primi anni mi ascoltava totalmente, quello che dicevo io era legge. Aveva problemi tecnici e veniva spesso squalificato. Dopo quattro anni con me aveva una delle tecniche migliori del mondo. Credo che questo sia stato il più importante lavoro che ho fatto su di lui. Gli ultimi due anni le discussioni sono state più frequenti, ma cose normali. Nel 2009 non volle più fermarsi a Saluzzo tutto l’anno e io gli mandavo gli allenamenti. Al mondiale del 2009 abbiamo avuto un bel battibecco. Nel 2010 sono andato in Cina e lui ha spesso sostenuto che i suoi problemi sono nati in quel momento, ma non è così perché lui non veniva già più a Saluzzo”.

Ha rimpianti con lui?
“No, siamo arrivati a vincere un’olimpiade! Da lui non ho mai sentito una brutta dichiarazione su di me. Qui a casa ho un quadro con la sua dedica: grazie per quattro anni fantastici. Non farò mai polemica con lui e lo ricordo sempre con affetto”.

Un giovane marciatore si giudica solo con il cronometro?
“No, sarebbe un grosso errore. Ragazzi predisposti possono migliorare durante tutta la loro carriera, ma dipende anche da quanto è in grado di insegnare l’allenatore”.

Crede di avere eredi?
“Il mio assistente cinese, Zao Cengliang, è stato uno dei primi atleti arrivati a Saluzzo. L’obiettivo che mi sono prefisso è di lasciargli la squadra dopo Parigi ‘24”.

Lei che farà?
“Ho ripreso da tre mesi a giocare a bocce, sto faticando dopo 24 anni senza competizione. Per ora purtroppo ho sempre perso in gara”.

Altri suoi allievi che fanno gli allenatori?
“Elisa Rigaudo è cuneese, sta facendo bene e sono contento. Con me un bronzo olimpico, uno mondiale e uno europeo e molte altre gare vinte. Credo abbia preso da me, lei è una grande lavoratrice, è più metodica di me che invece lavoro molto anche sulle intuizioni. Un altro bravo è Giorgio Rubino. Deve capire soltanto che la testa dell’allenatore è diversa dalla testa dell’atleta”.

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