Il governo Meloni con la manovra per il 2023 allarga le maglie per l’uso dei buoni lavoro o voucher. Osteggiati dai sindacati, guardati con favore dalle imprese, tornano in vigore in grande spolvero a distanza di quasi cinque anni dalla loro abolizione. Resa necessaria dagli abusi cui avevano dato vita. “Venivano usati come scorta”, spiega l’avvocato giuslavorista Vincenzo Martino, “si prendeva un lavoratore in nero e in caso di controlli si attivava il voucher”. Era il marzo 2017 e il governo Gentiloni, per evitare di affrontare un referendum abrogativo dall’esito incerto indetto dalla Cgil per il 28 maggio, preferì cancellare lo strumento, salvo poi reintrodurlo – con paletti più stretti – nella forma del “Libretto di famiglia” e del “PrestO” (contratto di prestazione occasionale). Il decreto Dignità del luglio 2018, infine, ha esteso (ma solo per pensionati, studenti con meno di 25 anni e disoccupati) l’utilizzo dei voucher al settore agricolo e a quello turistico.

“Le criticità erano un abnorme ricorso a prestazioni di lavoro che pur formalmente occasionali in realtà stavano diventando strutturali”, continua Martino. “C’era un precariato strutturale a chiamata di lavoratori assolutamente non garantiti da nessuna normativa di tutela di stabilità del posto di lavoro, con delle prestazioni con cui addirittura si metteva in discussione che si potesse contestare il requisito della occasionalità: con quella formulazione, se le prestazioni continuative erano coperte dai voucher, il lavoratore non aveva diritto all’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Da tempo il centrodestra ne chiedeva la reintroduzione. A maggio il leader della Lega, Matteo Salvini, aveva appoggiato la proposta avanzata dall’allora presidente del Consiglio, Mario Draghi, di riportarli in auge, “perché per milioni di italiani meglio un lavoro vero e a tempo che a nero e un reddito per stare a casa”. Nelle intenzioni dell’esecutivo, la misura si dovrà però “accompagnare a controlli molto rigidi per evitare storture”. Dall’1 gennaio si potrà ricorrere ai buoni lavoro da 10 euro lordi (7,50 netti all’ora) per i settori dell’agricoltura, del comparto Horeca (hotel, ristoranti e bar) e della cura della persona, in particolare per quel che riguarda i lavori domestici. Raddoppiato il reddito che un lavoratore può percepire con gli assegni, che passa dai 5mila euro fissati dal decreto Dignità a 10mila euro l’anno. Inoltre, anche il tetto al numero massimo di dipendenti viene alzato: cresce infatti da 5 a 10. L’obiettivo del governo è quello di avere un “uno strumento utile per regolarizzare il lavoro stagionale e quello occasionale”.

Va detto che i voucher Inps riservati alle imprese (i cosiddetti PrestO) in vigore dal 2017 hanno un importo maggiore di quelli che verranno introdotti sulla base della legge di bilancio: ogni tagliando vale infatti 12,41 euro, con un minimo orario netto di 9 euro e giornaliero di 36 euro (ovvero 4 ore). I voucher invece utilizzati in ambito domestico (Libretto di famiglia) hanno un valore di 10 euro lordi. “Vanno benissimo in agricoltura, nel turismo e per il lavoro domestico ma allargarne oltremodo l’ambito di applicazione comporta il rischio di tornare alla situazione del 2016, caratterizzata da estrema precarietà”, sottolinea Martino. Già perché lo strumento, nato per contrastare il lavoro nero, con il passare del tempo e dei governi era diventato un comodo escamotage per non assumere i lavoratori. In una parola, per tenerli nella precarietà.

Creati nel 2003 con la riforma Biagi, dal nome del giuslavorista Marco Biagi assassinato dalla nuove Brigate Rosse, ma effettivamente in uso solo a partire dal 2008, i voucher dovevano servire a fare uscire dal sommerso una serie di rapporti e prestazioni di lavoro occasionali, soprattutto per attività di cura e assistenza (lezioni private, badanti, colf). Nel 2012 la riforma Fornero li estese a tutti i settori. Per regolarizzare un rapporto di lavoro era quindi sufficiente acquistare un voucher, che comprendeva, oltre alla retribuzione per il lavoratore, anche il pagamento dei contributi. Con il Jobs Act, attuato tra il 2014 e il 2015 dal governo Renzi, venne esteso il limite annuo di redditi percepibili attraverso i buoni lavoro da 5mila a 7mila euro netti (9.333 euro lordi). Una liberalizzazione massiccia, spinta dalla volontà di flessibilizzare il mercato del lavoro, che allargò a dismisura l’utilizzo dei voucher.

Basta qualche dato: se nel 2008 ne vennero staccati 536mila, nel 2016, l’ultimo anno in cui lo strumento ha funzionato a pieno regime, 134 milioni. Nel complesso ne vennero emessi 433 milioni. Da qui la necessità di frenare il ricorso ai voucher, che da strumento pensato per far emergere il lavoro nero divennero un mezzo per eludere le norme di diritto del lavoro. Già nel settembre 2016, con un decreto correttivo del Jobs Act, per frenare gli abusi venne imposta la tracciabilità: per attivare il buono (dal valore di 10 euro dei quali 7,50 vanno in tasca al lavoratore) il datore doveva darne comunicazione all’Inps tramite sms o email 60 minuti prima dell’utilizzo. Una misura che però non fu sufficiente. Al punto che la Cgil, all’epoca guidata da Susanna Camusso, raccolse 3 milioni di firme per chiederne l’abrogazione con un referendum.

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