di Carmelo Zaccaria

L’ideologia di destra ha sempre avuto un rapporto controverso con le masse indifese. Lo dimostra la reazione spropositata del governo nel rintuzzare il raduno del rave party e il disperato sbarco dei migranti. Nell’uno e nell’altro caso, non essendosi manifestato un reale pericolo per la sicurezza nazionale, si sarebbe potuto gestire l’afflusso di queste moltitudini in maniera un po’ meno traumatica invece di assumere provvedimenti tanto eclatanti quanto pretestuosi che ad ogni modo dimostrano come la destra politica, nel profondo, si senta come turbata, spiazzata, davanti ad una folla pacifica, che non mostra alcuna velleità di nuocere il prossimo.

Nel nucleo centrale del pensiero di destra permane la convinzione che la folla non può essere né remissiva né tantomeno trasgressiva o indisciplinata, ma deve mostrarsi coriacea, arrembante, travolgente, un luogo dove il singolo prende coraggio, si rafforza, dove chi resta indietro viene calpestato; una massa compatta e indistruttibile, segnata da un destino inequivocabile, simile ad una testuggine che avanza, che trascina. Nel concetto di massa della destra la folla assume i tratti di un’adunata vertiginosa, pervasa da un delirante furore agonistico.

Elias Canetti l’avrebbe paragonata ad una muta di caccia, vale a dire una massa irrequieta che aizza, che si muove come un branco per assaltare qualcosa, per insidiare qualcuno, sempre concentrata sull’obiettivo, dove ognuno sente di voler partecipare perché al suo interno si sente protetto, superiore, indistruttibile, non avverte nessun pericolo, si sente dentro un’impresa epica che forse non si ripeterà più. Scrive Canetti in Massa e Potere: “La fretta, lo slancio e la sicurezza della massa aizzata hanno qualcosa di terrificante. E’ l’eccitazione dei ciechi, che sono più ciechi nell’istante in cui credono di vedere”. Quando l’obiettivo della massa aizzata viene raggiunto si disgrega velocemente perché presa dall’angoscia di aver compiuto un’azione astrusa e deplorevole. Nei cerimoniali della destra gli arditi si muovono sempre in gruppo, come una squadra mossa all’assalto che vuole travalicare l’esistente, senza mai darsi il tempo di comprenderlo, come è avvenuto nel raduno del centenario della marcia su Roma dove più di tremila “arditi” si sono rovesciati sulla tomba del duce, a Predappio, con cori e saluti marziali. Tutti in camicia nera, impettiti e orgogliosi, con il coltello tra i denti, che se avessero trovato un gatto per la loro strada lo avrebbero maciullato, salvando così l’insussistenza del giorno.

I rave party invece si collocano a metà strada tra la massa festiva e la massa del divieto, disponibili a scavalcare qualche proibizione, ad adottare qualche forma di resistenza, a reclamare qualche diritto. Non si verificano tumulti nei loro raduni, non ci sono vincoli ideologici né si riscontrano tentativi di rovesciamento, nessuno viene minacciato. L’unica aspirazione degli aderenti è quella di poter condividere, tra uno spinello e un ritmo di musica raccapricciante, una gioia comune. Per l’ideologia di destra difficilmente esistono cose da festeggiare, ma solo avvenimenti “fatali” da celebrare, inneggiare, venerare. Ogni diverso assembramento spazientisce, terrorizza, fa paura, perché porta con sé incertezza, confusione, imbroglio.

Ecco perché i raduni dei rave party, con la loro allegria sfacciata e irriguardosa, pruriginosa e incontrollabile, sono stati sanzionati da questo governo di destra, perché la loro sconsiderata audacia, il loro provocatorio richiamo ad un modello di mondo libero e scanzonato, per giunta multicolore, disturba inevitabilmente il grigiore della sua intrinseca natura persecutoria e ossessionata. La stessa insipienza che non le permette di rivolgere uno sguardo pietoso verso la folla dei migranti, trasformando le regole dell’accoglienza e del salvataggio delle vite in mare in una mistificante e crudele opera di selezione naturale. Anche qui la massa inerme e mansueta spaventa e inquieta.

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