Se fossi un insegnante di destra che ha votato Giorgia Meloni e company, non sarei molto soddisfatto di questi primi passi del nuovo governo. La scuola e i docenti sono scomparsi rapidamente dal radar della politica. Tra le altre cose, la proposta fatta in campagna elettorale, anche dal centro-destra, di adeguare gli stipendi dei docenti alla famosa media europea è sparita sia nei discorsi dei leader che nei documenti ufficiali del governo. Incassato il voto di molti docenti, la destra sta mostrando le sue reali intenzioni che non sembrano certo quelle di valorizzare la scuola e la professione docente.

C’è stato, peraltro, un piccolo brivido: il cambio del nome del Ministero, prima semplicemente dell’Istruzione, ora dell’Istruzione e del Merito. C’era da aspettarsi che la nuova denominazione, così ardita e gagliarda, sollevasse un vespaio soprattutto a sinistra dove il merito in sé stesso non ha tanta considerazione, perché si ritiene che dietro l’ideologia del merito si nasconda la tradizionale giustificazione per i privilegi di ceto e di classe sociale.

Questo è evidente soprattutto nella società americana dove si stanno levando molte voci critiche contro un’impostazione cosiddetta meritocratica che invece, come molte ricerca hanno dimostrato, tende a favorire chi si trova ai piani alti della piramide sociale (si veda The Meritocracy Trap: How America’s Foundational Myth Feeds Inequality, Dismantles the Middle Class, and Devours the Elite di Daniel Markovits, professore di legge a Yale, 2019). E qui sarebbe necessario che anche alcuni critici, da destra, della scuola pubblica si aggiornassero un pochino nella loro analisi disfattista perché sembrano ripetere stereotipi superati.

La scuola, secondo alcuni, ha fallito il suo compito di essere un fattore di mobilità sociale, il famoso ascensore sociale. Oggi questo non è più vero, come tutti possiamo notare, ma non a causa delle politiche scolastiche (della sinistra?), ma per il fatto che, seguendo ancora la metafora dell’ascensore, siamo arrivati all’ultimo piano dell’edificio sociale dell’istruzione e oltre non si può andare. Negli anni 50 solo il 10% dei ragazzi e delle ragazze si diplomava. Il diploma era la garanzia di un buon posto di lavoro. Ora che il diploma interessa quasi la totalità degli studenti e delle studentesse è chiaro che non può più essere una via per l’ascesa sociale.

Come dicono gli economisti, il premio dell’istruzione è svanito. E questo sta toccando anche l’università. In un mondo in cui tutti sono diplomati e moltissimi laureati, la via per il successo passa per altri canali, sovente quelli delle relazioni familiari. Occorre trovare nuove strade per valorizzare il talento individuale ed impedire l’appiattimento educativo e culturale, ma la strada della nostalgia per la perduta e falsa meritocrazia dell’Italia del boom economico non è più proponibile. Se poi il ministro Giuseppe Valditara seguirà, come è molto probabile, lo schema pensato per l’università, allora avremo poche scuole di eccellenza di serie A, poi meno eccellenti di serie B, poi di serie C, e così via, ordinate secondo uno schema puramente meritocratico, con criteri stabiliti in sede ministeriale che saranno naturalmente ottimi perché decisi dal ministro e dalla sua cerchia di consulenti (spesso economisti iperliberisti che trattano la scuola come se fosse il mercato delle patate).

E anche i modesti finanziamenti aggiuntivi seguiranno questa gerarchia guidata dall’alto con severo, ma giusto paternalismo. Poi c’è il problema delle risorse. Anche se si volesse intervenire, i critici ripetono che mancano i soldi. Per capire se questo corrisponde a verità, ma è una vera fake news, basta guardare anche alla Nadef approvata la settimana sorsa. Il prudente, termine suo, ministro Giancarlo Giorgetti ha proposto uno scostamento di bilancio, cioè un ulteriore deficit, di circa 21 miliardi di euro. Questo nuovo debito servirà per soddisfare le esigenze del caro energia ma anche per realizzare alcune delle tante proposte del bouquet elettorale del centro destra, tra cui c’era anche l’idea di un aumento progressivo dello stipendio dei docenti.

Ma non sarà così per i docenti. La direzione che prenderanno le nuove somme è stata anticipata. Se non consideriamo gli interventi per calmierare le bollette di famiglie ed imprese, la parte del leone, 3-4 miliardi, sarà destinata alla riduzione delle tasse, con soldi pubblici, dei professionisti ad alto reddito attraverso la tassa piatta dell’Irpef al 15%. Una parte non secondaria, altri 2-3 miliardi, sarà destinata ad una piccola riduzione del cuneo fiscale per accontentare Confindustria, e quello che rimane andrà ad un’altra tassa piatta, stavolta sullo straordinario dei lavoratori privati. Se moltiplichiamo questi interventi per gli anni della legislatura otteniamo una somma veramente importante, oltre che disponibile. Naturalmente per il pubblico impiego e per la scuola nulla. Eppure a suo tempo, con il blocco della contrattazione tra il 2010 e il 2015, il settore pubblico fece risparmiare alle casse dello Stato circa 35 miliardi di euro, solo in parte restituiti. Quindi il conto è ancora a credito per i pubblici dipendenti.

In definitiva, le risorse ci sono ma pare che il ministro Valditara non le voglia chiedere per la sua scuola del merito, almeno finora. C’è da capire, allora, lo sconforto dell’insegnante elettore di centro destra. Se sarà fortunato finirà in una delle scuole del merito con qualche euro in più al mese. La probabilità, però, di trovarsi in una scuola di serie a è molto bassa, diciamo dell’1% perché il merito vuole una forte selezione, e del tutto inesistente se la sua scuola si trova in una regione del sud.

L’incremento di stipendio promesso è sfumato perché ci sono altri obblighi elettorali ritenuti più qualificanti da soddisfare per il/la premier Meloni e il suo staff meritocratico. Che fare allora? Seguendo parzialmente lo schema di Albert Hirschman ci sono due possibilità: loyalty o voice. La prima è quella di una lealtà istituzionale segnata però dalla rassegnazione e dal disimpegno, che molti docenti in realtà hanno già scelto chiudendosi nella propria esperienza personale. Poi c’è la seconda strada, quella della protesta nei confronti di una classe politica che non vuole investire nel futuro, cioè nell’istruzione.

Il contratto della scuola è scaduto e siamo ad inizio legislatura. L’occasione è propizia per ottenere qualcosa per la professione docente, ma tocca ai docenti la prima mossa per fare sentire la loro voce. Per questo c’è bisogno di tutti i docenti, sia di coloro che hanno votato a destra, vincitori ma delusi, sia di quelli che hanno votato altrove, questa tornata perdenti. Se la scuola farà sentire la sua voce in maniera compatta, c’è da scommettere che sarà ascoltata.

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