Una mano sinistra appoggiata sulla bandiera del Brasile e una parola: democrazia. La mano è quella di Luiz Inácio Lula da Silva, una mano alla quale manca il mignolo, perso in un incidente lavorativo quando il presidente-operaio aveva solo 17 anni. Questa è l’immagine scelta da Lula, e pubblicata sulle sue pagine social, per iniziare il suo nuovo cammino come presidente del Brasile.

Una vittoria al cardiopalma, arrivata dopo una domenica piena di tensioni che ha letteralmente spaccato in due il gigante sudamericano. Lula ha vinto con un margine di voti molto ristretto e il presidente uscente Jair Bolsonaro non ha ancora fatto nessuna dichiarazione al riguardo. Il 50,9% del popolo brasiliano (60,345,999 preferenze) ha scelto Lula mentre il 49,1% de voti (58,206,354 preferenze) sono andati a Bolsonaro: 5,700,443 di voti sono nulli. Poco più di 2 milioni di persone hanno fatto la differenza, un numero che in termini relativi rispetto alla demografia brasiliana è molto risicato.

Nella prima tornata elettorale, celebrata ad inizio ottobre, Lula aveva marcato una distanza più importante rispetto a Bolsonaro (48,4%, del primo contro il 43,2% del secondo) che però già in quel momento aveva dimostrato l’inaffidabilità dei sondaggi che lo davano sconfitto con percentuali molto più ampie. Sondaggi che anche ieri non hanno “azzeccato” le previsioni, considerando che la vittoria di Lula era data tra un 52 e 54%. La realtà è stata invece diversa e le spiegazioni possono essere molte.

Da un lato c’è chi parla di voto della vergogna, il fatto cioè che una parte dei votanti di Bolsonaro non vogliono ammettere in pubblico di esser tali: perché si vergognano del razzismo, dell’omofobia e della misoginia del presidente uscente. Dall’altro anche l’ombra di una macchinazione escogitata dentro le stanze di Planalto a Brasilia (il palazzo presidenziale), da dove secondo il giornale di Rio de Janeiro, O Globo, è partito l’ordine di moltiplicare i posti di blocco nella giornata di ieri per impedire ai votanti delle zone rurali o periferiche (votanti di Lula) di arrivare ai seggi.

Uno dei momenti di forte di tensione registrati nella giornata di ieri 30 ottobre si è materializzato quando il Tribunale Superiore Elettorale (TSE), nella persona del suo presidente Alexandre de Moraes, ha convocato il capo della polizia stradale Silvinei Vasques per chiedere spiegazioni sul motivo di 514 posti di blocchi stradali, nonostante l’autorità elettorale avesse precedentemente vietato qualsiasi azione di polizia che potesse ostacolare il trasporto degli elettori. Vasques non ha mai nascosto la sua predilezione per Bolsonaro e a poche ore dal voto aveva pubblicato sulle sue reti sociali un post chiedendo di votare per il candidato dell’estrema destra (post poi rimosso).

Nonostante tutto questo però Lula ha vinto e vent’anni dopo il suo primo trionfo, avvenuto il 27 ottobre 2002 (il giorno del suo compleanno) torna a vestire i panni della carica più importante del Brasile: il prossimo 1 di gennaio 2023 diventerà ufficialmente il trentanovesimo presidente della più grande economia latinoamericana.

Capo di una coalizione plurale e differente, una coalizione che probabilmente solo il suo carisma riesce a tenere unita, Lula proverà a salvare l’Amazzonia frenandone la deforestazione, ridurre la povertà in Brasile e combattere la fame: almeno questo ha detto nel suo primo discorso da presidente eletto dove ha anche ringraziato Dio e il popolo brasiliano. Il Brasile che si trova davanti colui che fondò il 10 febbraio 1980 il Partido de los Trabajadores (Partito dei Lavoratori – PT) è però un paese con enormi disuguaglianze, frammentazioni e contrasti. Dalla classe sociale, all’appartenenza etnica fino al credo religioso, passando per l’enormità geografica di un paese-continente formato da Stati e città che spesso tra di loro sono agli antipodi.

Guardando la mappa del voto, la composizione del congresso e risultati dei ballottaggi dei governatori, si capisce inoltre che per Lula il compito di governare non sarà per niente facile. Rio de Janeiro era già andata al “bolsonarismo” nella prima tornata elettorale e ieri anche San Paolo ha votato per il candidato vicino a Jair Bolsonaro. L’uomo di Lula nel centro economico del Paese, Fernando Haddad, ha dato battaglia fino alla fine ma non è riuscito nell’impresa: per lui comunque secondo molte voci si profila già un posto nel nuovo governo “lulista”, forse ministro dell’Educazione.

Bolsonaro è dunque stato sconfitto (anche se da lui non sono ancora arrivate dichiarazione ufficiali) ma il bolsonarismo e un certo di modo violento di fare politica è ormai di fatto radicato in Brasile. Non va dimenticato inoltre che Bolsonaro si è appropriato ideologicamente dei simboli patri del Brasile, la bandiera e la maglia della squadra di calcio (Neymar è uno dei suoi più grandi sostenitori), in classico stile delle estreme destre (anche nostrane). Un uso dei simboli patri diluito da Lula con il rosso del suo partito (il PT) e il numero 13 (quello della sua lista), presente ovunque e contrapposto al 22 del presidente uscente.

Lula dal canto suo è passato da “cadavere politico” a nuovo presidente, con una cavalcata storica che lo ha portato dal carcere di Curitiba ad entrare di nuovo, da inquilino, nel palazzo di Planalto. Non sono più però i tempi della vittoria schiacciante del 2002, quando il sindacalista di pernambuco aveva trionfato con il 61% dei voti e in generale la situazione geopolitica e geo economica mondiale fa pensare che un secondo miracolo brasiliano sia un orizzonte lontano. Per l’America Latina la vittoria del settantasettenne Lula significa che ora, su 630 milioni di persone, più di 500 milioni sono governate da un governo di sinistra (andrebbe ovviamente approfondita nello specifico la situazione politica di Venezuela, Nicaragua e Cuba e non è questo il luogo) aprendo ancora una volta nuovi possibili scenari di unità regionale e di utopie possibili.

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