Non se ne può più di questa continua corsa all’idea falsificata di “parità di genere” per cui le donne, oggi, sembrano per lo più obbligate a dimostrare di essere in grado di fare carriera e produrre reddito, meglio se come gli uomini.

C’è una differenza enorme tra l’essere obbligati e avere il diritto a seguire un determinato percorso di vita.

Quindi, facciamo così, mentre quasi tutti sono concentrati a garantire alle donne l’ingresso nell’inebriante universo dei soldi e del potere (opzione più che sacrosanta), proviamo a rivolgere lo sguardo verso una particolare categoria di donne, quella a cui non frega nulla della carriera e che vorrebbe trovare un giusto equilibrio tra lavoro e desiderio di occuparsi della propria famiglia: le mamme lavoratrici.

Qualcuno deve farsene una ragione, ci sono donne a cui non interessa anteporre la carriera ai figli. Com’è ben noto, specie nei primi anni di vita, i bambini necessitano di attenzioni continue o giù di lì. Basti solo pensare alla fase di allattamento, notte e giorno, giorno e notte. Quindi no, almeno in certe fasi della vita dei figli una mamma non potrebbe mai e poi mai dedicare al lavoro lo stesso tempo e le stesse attenzioni di un uomo.

Ne deriva che tra una visione superficiale (formale) e una visione attenta (sostanziale) della “parità di genere” si crea quell’enorme spartiacque tra il lavoro ben pagato come una opportunità e il lavoro ben pagato come un obbligo “sociale”, per cui a forza di sponsorizzare la super donna che deve essere come il super uomo di successo, si finisce con il generare nei confronti di alcune un senso di colpa, spinto dalla percezione sociale che la donna debba corrispondere a quel preciso modello. La parità sostanziale, quella vera, quella che serve alle donne, la si può ottenere soltanto tenendo conto delle diversità ineliminabili tra uomini e donne.

Certamente corretto rivendicare una uguaglianza retributiva a parità di mansioni e di orario di lavoro, mentre il fatto che molte donne optino per il part time non deve essere visto, come di fatto avviene, come un sacrificio e basta per chi vuole occuparsi dei figli. Che poi viene anche da ridere ormai, perché piano piano una società classista come quella neoliberista a cui abbiamo aderito sta livellando verso il basso le carriere e gli stipendi degli uomini. Anche questa è parità di genere, no?

Tutta questa premessa ci serve per toccare i veri tasti dolenti del lavoro femminile (e del lavoro maschile): la discriminazione di classe e l’inefficienza dello Stato.

La stragrande maggioranza delle famiglie vive in condizioni tali che le donne sono obbligate a lavorare, perché con uno stipendio è quasi impossibile vivere e mantenere i figli, a meno che non si tratti di una famiglia ricca o molto benestante. Il part time non è mica solo preferito per dedicare maggiore tempo ai figli. Spesso le donne restano a casa perché in famiglia non ci si può permettere di pagare costosi asili nido, baby sitter e colf, capaci di compensare l’assenza dei genitori. A volte, addirittura, le donne evitano anche il part time perché lo stipendio supererebbe i costi aggiuntivi di gestione familiare.

Dovrebbe essere lo Stato a intervenire per dare una solida assistenza economica e normativa alle famiglie per ridurre anzitutto il “gap di classe” tra donne, tra donne e uomini, tra uomini e uomini, cioè indipendentemente dal genere. Invece accadono cose tipo l’esaurimento dei fondi per il bonus nido a settembre, che lascia nel limbo le famiglie in difficoltà che vi avevano fatto affidamento, che dovranno aspettare il “miracolo” degli eventuali fondi aggiuntivi, erogati tutt’al più il prossimo anno.

Ecco perché ritengo che le statistiche sul “gender gap” che escludono tutti questi aspetti siano inutili e fuorvianti. In questo momento, più che “gap” di genere pare sia più preoccupante il “gap” tra le famiglie e la politica.

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