di Roberta Ravello

Nonostante il fatto che le donne debbano affrontare ogni giorno svantaggi politici, economici e sociali, un’ampia percentuale di donne e uomini dichiara che la discriminazione di genere non è più un problema nel nostro paese.

Negare il problema, la discriminazione di genere, promuove lo status quo. Il negazionismo è più alto in quei paesi in cui il sessismo è relativamente elevato. Ora, può darsi che alcune delle persone che negano il gender gap siano in buona fede. Eppure esistono molti studi, validati da pubblicazioni scientifiche, che dimostrano che tale diseguaglianza persiste. L’Italia nella classifica stilata dal World Economic Forum per il 2021 si trova al 63esimo posto su un panel di 156 Paesi da questo punto di vista. Molto dunque può e deve essere fatto per sanare le diseguaglianze.

Le ricerche sugli stereotipi evidenziano che proprio le persone che negano il problema sono le più inclini a esprimere valutazioni condizionate dai pregiudizi, e quindi le più responsabili di quella disparità di trattamento di cui negano l’esistenza. Se vogliamo parlare solo di lavoro, se è vero che sono molti i mestieri in cui oggi ci sono pari numero di donne e uomini, raramente le donne hanno la possibilità di arrivare ai ruoli apicali degli stessi. Forse per molti il concetto di violenza economica di genere è relativamente nuovo, eppure è ciò che motiva e fa perdurare la discriminazione in assenza di un suo riconoscimento normativo.

Secondo una ricerca condotta da Episteme e pubblicata con il titolo “Le donne e la gestione famigliare”, il 37% in Italia non possiede un conto corrente. Più si abbassa il livello culturale, più peggiora il problema della dipendenza economica, con donne che anziché avere un proprio conto corrente si servono di quello del proprio compagno o del proprio marito. Le donne non gestiscono denaro perché non ne hanno, o perché gli uomini glielo impediscono?

Violenza economica è il fatto che le donne siano sottopagate rispetto ai colleghi maschi per lo stesso ruolo, che siano costrette ad un certo dress-code di fascinazione erotica sul lavoro non richiesto ai colleghi uomini (si pensi ai tacchi, agli abiti scollati o aderenti, al trucco sul viso, fino al ricorso alla chirurgia estetica pur di mantenere il posto di lavoro quando l’età avanza e la giovinezza sfiorisce), o che sia loro richiesto di concedersi sessualmente per fare carriera. Può includere la negazione dell’accesso all’istruzione, dell’accesso ai servizi, l’esclusione da determinati lavori, dal piacere e dal godimento dei diritti civili, culturali, sociali e politici.

Anche nei rapporti genitori-figlie, spesso si ingenera violenza economica, allorché le figlie non sono considerate in grado di gestire il patrimonio o le aziende familiari, e vengono continuamente sottostimate o criticate come persone capaci solo di spendere e non di guadagnare. Si ingenera così un senso di inadeguatezza nelle donne vittime di questo tipo di violenza, che impedisce loro la crescita personale economica. Nella violenza economica di genere, va dunque riconosciuta la matrice della violenza psicologica mirata a creare scarsa autostima nella vittima.

Come si combatte la violenza economica, matrice di molte diseguaglianze? Prima di tutto dandole una definizione giuridica e permettendo alle donne che l’hanno subita di chiedere il risarcimento morale e patrimoniale a chi l’ha ingenerata. Oggi in Italia può sembrare fantascienza che una donna citi il padre, il marito o il datore di lavoro in tribunale per la violenza economica subita ottenendo un risarcimento, ma questo sarebbe un passo importante per ridurre il gender gap economico, e da lì tutti gli altri, perché nulla rende più libere e più pari del poter provvedere a se stesse innanzitutto economicamente, e conseguentemente in altri ambiti.

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