Cinema

Venezia 79, Bardo l’ipertrofico autobiopic di Inarritu tra messicani che odiano i gringos e onirismi felliniani

Il suo quasi autobiopic Bardo – La cronaca falsa di alcune verità, in Concorso per il Leone d’Oro di Venezia 79 si srotola in tre ore pindaricamente immersive, letteralmente ombelicali, nondimeno ostentatamente politiche

di Davide Turrini

Fate largo, ma molto molto largo, che passa Alejandro Gonzalez Inarritu. Il suo quasi autobiopic Bardo – La cronaca falsa di alcune verità, in Concorso per il Leone d’Oro di Venezia 79 si srotola in tre ore pindaricamente immersive, letteralmente ombelicali, nondimeno ostentatamente politiche. Protagonista è il giornalista messicano Silverio Gama (il generoso Daniel Gimenez Cacho), qualcosa tra il premio Pulitzer e il documentarista impegnato, deambulante e svolazzante in piena crisi di mezza età. La cifra espressiva del film di Inarritu però, tra un “ciucciate più uova” e ottoemezzi felliniani o anche un contemplativo Malick travolto da tromboni e tube di Roy Andersson, è quella dell’onirismo che si insinua nei gangli e negli spazi del reale. Un quotidiano familiare che talvolta perde l’audio e si deforma materialmente, diviso tra Messico e California – dove bergmanianamente Silverio riceverà un importantissimo premio “americano” che però non vuole ritirare -, pacchiani e volgari studi tv dove non vuole finire intervistato da un vecchio opportunista amico giornalista; una mirabolante festa alla messicana in una enorme sala da ballo (sequenza clou del film); ma anche gli anfratti di una memoria personale fatta di babbi, mamme, fratelli e sorelle, figli che parlano inglese, ricordi urbani d’infanzia, scenari dei propri documentari girati con “protagonisti” messicani che scappano negli Stati Uniti attraversando il deserto, infine l’incontro con il conquistadores Hernan Cortes vestito con pesante armatura di ferro e seduto in cima a una pila di cadaveri indios.

A dire il vero Bardo comincia con una sequenza ospedaliera tutta grandangolare con l’appena nato Matteo che visto “il mondo di merda” che lo aspetta fuori “vuole ritornare dentro” l’utero materno, quello della moglie di Silverio. Il neonato viene quindi infilato nella pancia di mamma e Bardo può cominciare nuovamente da Silverio: prima seduto mezzo dormiente su una metro zeppa di acqua fuoriuscita dal sacchetto di axoloti di suo figlio più grande, poi dinanzi all’ambasciatore statunitense in Messico con cui si sta accordando per un’intervista al presidente. L’importante è che l’osannato giornalista metta da parte le sue critiche al razzismo della Casa Bianca contro i messicani. Nel frattempo la tv spiega che Amazon (i concorrenti di Netflix che qui produce, ndr) si è appena comprata la Baia della California del Sud, mentre nel cortile del palazzo presidenziale va in scena una ricostruzione ad uso e consumo della fantasia dello spettatore di una battaglia militare ottocentesca tra fanti messicani e statunitensi dove il giornalista ricorda come gli americani hanno costruito miti inventati sulle loro conquiste militari. Tutto, dal tono ridanciano del discorso tra i due attori alle tonalità cromatiche albeggianti, sono fuori scala, ironicamente grottesche. A questo va aggiunto che Inarritu si affida a lunghi piani sequenza “esplorativi” – briosi e vivaci tra i corridoi e i palchi degli studi tv; funerei e cupi tra i corridoi e le stanze di casa – con la tipica carrellata in avanzamento (modello DiCaprio in Revenant o Keaton in Birdman) e all’uso di lenti grandangolari che ci trattengono in un perenne tunnel kubrickiano.

È l’espediente stilistico a fuoriuscire, ipertrofico e totalizzante, oltre il testo, e a farsi senso generale dell’opera. La crisi esistenziale, identitaria e professionale di Silverio si sprigiona proprio attraverso lo stile della messa in scena e non nello sviluppo lineare della storia. Uno sbilanciamento formale che in Birdman sapeva di concettuale e sperimentale, in The Revenant di linearmente muscolare, qui di giocoso saltabeccare da un piano temporale e spaziale all’altro. Così se almeno fino a metà film – il lungo blocco della festa danzante – Bardo pulsa di un disincanto naturale, sorgivo e spiritoso, da lì in avanti il film comincia a girare su se stesso alla ricerca di un climax addirittura drammatico, che non si verifica mai nell’insieme dispersivo del racconto, all’inseguimento della chiusura di mille ellissi narrative che affondano in un pesante horror vacui. Il senso politico dell’opera oscilla infine tra la presunta mercificazione della miseria dei compatrioti compiuta dal protagonista con i suoi documentari e il j’accuse spettacolare verso il proprio stato che dimentica reietti e poveracci con le persone in strada che cadono fulminate a grappoli per chilometri come fosse una tragica simbolica coreografia di morte. Insomma, talento, visionarietà, tecnica abbondano nel film quasi fino all’indigestione, anche se le dimensioni illimitate del dolce Bardo creano l’effetto contrario del gusto che svapora presto.

Venezia 79, Bardo l’ipertrofico autobiopic di Inarritu tra messicani che odiano i gringos e onirismi felliniani
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