Nell’incertezza ci si prepara al peggio. L’ipotesi di uno scontro tra Cina e Stati Uniti rimane remota ma ha assunto maggior concretezza alla luce delle crescenti tensioni che riguardano Taiwan. Si rievocano le parole dello storico e militare dell’antica Atene Tucidide che nella sua Guerra del Peloponneso spiega che quando una potenza emergente sfida quella già affermata frequentemente il confronto sfocia in una guerra per l’egemonia. E così, da una parte e dall’altra, si iniziano a muovere anche gli eserciti economici. Le aziende cinesi se ne vanno (o vengono cacciate) da Wall Street, i grandi marchi americani come Apple si preparano uscite di sicurezza e stringono accordi con altri paesi per assicurarsi nuovi sbocchi produttivi.

Negli ultimi mesi Apple ha deciso di spostare fuori dalla Cina una serie di impianti produttivi, indirizzandosi soprattutto verso India, Messico e Vietnam. In India è iniziata a partire da quest’anno la produzione di iPhone 13 e seguiranno gli iPad, in Vietnam potrebbe partire a breve quella di Apple Watch e MacBook. In Vietnam la taiwanese Foxconn e la cinese Luxshare Precision, fornitori e assemblatori di Apple in Cina, hanno già condotto i primi test per l’assemblaggio.

Pochi giorni fa Stati Uniti e Taiwan hanno avviato le trattative per la definizione di nuovi e più stretti rapporti e reciproci investimenti. La maggiore collaborazione dovrebbe svilupparsi soprattutto nell’agricoltura, nel settore digitale e nelle politiche climatiche. Inoltre verrebbe favorito l’inserimento di Taiwan in più ampi accordi commerciali internazionali. Questo proprio mentre la Cina rivendica il pieno controllo dell’isola. Il vero tesoro di Taiwan sono i semiconduttori di cui, insieme alla Corea del Sud, è principale produttore al mondo. Nell’isola ha anche sede Tsmc (Taiwan semiconductor manufactoring company), gigante che realizza chip per un’infinità di marchi occidentali, a cominciare da Apple. Qui vengono costruiti anche i microprocessori montati sui jet militari F35. Non è un caso che nella sua controversa visita a Taiwan la presidente della Camera statunitense Nancy Pelosi abbia incontrato anche i vertici dell’azienda.

La scorsa settimana cinque delle più grandi società statali cinesi hanno annunciato l’intenzione di ritirarsi dalla borsa statunitense. Si tratta di China Life Insurance, PetroChina e China Petroleum & Chemical, Aluminium Corp of China e Sinopec Shanghai Petrochemical. Insieme hanno una capitalizzazione di 370 miliardi di dollari. La ragione ufficiale è la difficoltà di raggiungere un accordo per quanto riguarda gli obblighi di trasparenza richiesti dai regolatori statunitensi. Tuttavia l’esodo è stato visto anche come riflesso delle crescenti tensioni tra i due paesi. Le società cinesi quotate negli Stati Uniti sono circa 200, tra queste anche i gruppi tech Alibaba e Baidu. Anche loro rischiano di dover salutare Wall Street se le acque non si calmano.

Accanto a questi scontri alla luce del sole ci sono tante schermaglie sottotraccia. Il pacchetto di misure approvato pochi giorni fa negli Stati Uniti che stanzia 370 miliardi di dollari per la lotta al cambiamento climatico prevede ad esempio sussidi fino 7.500 dollari per l’acquisto di auto elettriche (uno dei settori in cui la Cina persegue la leadership globale) ma soltanto se vengono costruite in Nord America e usando minerali per le batterie che provengono sempre dagli Usa o da paesi considerati amici, con un esplicito divieto per le forniture da Cina e Russia. Eppure, recentemente, Joe Biden aveva tentato di recuperare un miglior rapporto con la Cina, in particolare avviando colloqui per la revisione di alcune barriere tariffarie. Per gli Stati Uniti attingere di nuovo a piene mani alle produzioni cinesi a basso costo sarebbe un modo per arginare le spinte inflazionistiche.

Non che gli attriti economici tra le due potenze siano una novità: è difficile dire se gli accadimenti degli ultimi giorni siano il risultato di processi in atto da tempo o frutto di un clima relazionale che si sta rapidamente deteriorando. Già nel 2019 Donald Trump parlava di un “delisting” dagli indici statunitensi delle compagnie cinesi. Lo stesso anno il gruppo di e-commerce ed intelligenza artificiale Alibaba ha deciso di quotarsi ad Hong Kong oltre che a Wall Street, mossa caldeggiata da Pechino nel tentativo di ridurre la dipendenza dei colossi nazionali dai mercati finanziari a stelle e strisce. La cinese Huawei, detentrice probabilmente del know how più avanzato al mondo sulla tecnologia 5G, è stata bandita dagli Usa e Washington ha spinto gli alleati occidentali a fare lo stesso.

Da tempo la Cina tenta, senza grandi risultati, di de-dollarizzare la sua economia, aiutata in questa operazione soprattutto dalla Russia. Cerca di usare altre valute negli scambi commerciali (attualmente appena il 25% di quelli effettuati dalla Cina è regolato con la sua moneta) e di rafforzare il ruolo internazionale del suo yuan. Impresa ardua se nel frattempo si intralciano i movimenti di capitale. Dipendendo molto dal dollaro il paese è in balia della benevolenza della Federal Reserve statunitense, che diventa importante nelle fasi di crisi. Durante la pandemia la banca centrale americana non ha aperto linee di swap (semplificando la possibilità di cambiare la propria moneta in dollari) con Pechino come ha invece fatto con le banche centrali dei paesi alleati. Tuttavia ha offerto alla Cina la possibilità di ottenere dollari in cambio di titoli di Stato Usa a garanzia. E la Cina ne possiede una montagna, che si è ridotta negli ultimi anni ma rimane vicina ai mille miliardi di dollari. I due paesi sono stretti in un abbraccio finanziario. Vendendo i titoli la Cina può ridurne il valore, ma in questo modo nuoce anche a se stessa.

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