di Claudia De Martino

Molti europei hanno constatato con sorpresa il potere dei 62,2 milioni di elettori evangelici statunitensi nel forgiare la politica estera Usa durante gli anni dell’amministrazione Trump, quando, nell’arco di soli quattro anni, Gerusalemme è stata dichiarata la capitale indissolubile dello stato di Israele con il conseguente trasferimento dell’ambasciata americana, l’occupazione delle alture del Golan legittimata, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi drasticamente sottofinanziata e avanzato un “piano di pace del secolo” completamente unilaterale e orientato alla definitiva depoliticizzazione della “questione palestinese”.

In modo analogo, gruppi evangelici pro-sionisti stanno sorgendo nei paesi dell’America latina, diventando in pochi anni vere potenze in grado di riorientare le relazioni diplomatiche dei rispettivi paesi in funzione pro-israeliana. Questo fenomeno è particolarmente evidente in Brasile, dove importanti ong statunitensi come la Eagles’ Wings, la Chiesa di Sion e il Committee for Accuracy in Middle East Reporting in America sono estremamente attive, considerando il paese un ottimo terreno di lancio per la loro diffusione nel continente sudamericano. Nel paese gli evangelici sarebbero, infatti, in rapida crescita, attestandosi al 31% della popolazione brasiliana, ed erodendo il seguito di chiese più moderate, come quella cattolica, o più progressiste, come quelle protestanti.

A spiegare le ragioni del consenso di massa di cui godono gli evangelici in Brasile è il bellissimo e istruttivo libro di Claudileia Lemes Dias, Le catene del Brasile. Un Paese ostaggio delle religioni (L’Asino d’oro, 2022), che ripercorre la storia recente di un paese di 214 milioni di abitanti scosso da crisi religiose che rivelano fratture sociali e culturali insanabili, in una delle società più multiculturali, multietniche e giovani del mondo, dove i bianchi non sono più la maggioranza demografica, ma, nonostante questo, i maschi bianchi di 60 anni continuano a rappresentare saldamente il gruppo egemonico alla guida del paese (l’85% della camera e del senato, secondo i dati dell’Istituto Brasileiro de Geografia e Estatistica – IBGE, 2020).

Lemes Dias traccia la storia della graduale conquista da parte degli evangelici delle coscienze dei fedeli e della loro conseguente appropriazione di ruoli dirigenziali nell’economia, nella politica e nella società, nonché del loro convinto allineamento ad Israele in politica estera: un processo avviato insospettabilmente dal presidente del partito dei lavoratori (Partido dos Trabalhadores, PT) Lula da Silva, attraverso l’elargizione di fondi federali alla prima emittente evangelica -Tv Record- di proprietà della Chiesa Universale del Regno di Dio (Igreja Universal do Reino de Deus, Iurd), durante i suoi due mandati presidenziali (2003-2011). Gli evangelici sarebbero stati poi tanto abili nel manipolare i mezzi di comunicazione di massa che nel 2015 l’autoproclamato vescovo dello Iurd, Macedo, sarebbe stato inserito dalla rivista Forbes nell’elenco degli uomini più ricchi del mondo, insieme ad altri predicatori brasiliani (Lemes Dias: 35).

Il loro successo nella predicazione sarebbe dovuto alla loro “teologia della prosperità”, una nuova interpretazione dei Vangeli figlia del capitalismo che descrive la relazione tra l’uomo e dio come una prestazione d’opera tra un fornitore (dio) e un cliente (il fedele). “Il successo professionale o la guarigione del fedele da una malattia sarebbero condizionati dal denaro offerto, legati tra di loro da un’equazione di mercato: da una parte, l’amicizia con la divinità, acquistata con il denaro, dall’altra, il ritorno economico accresciuto con interessi a un tasso ‘divino’ ” (Lemes Dias: 36). Il vero cristiano avrebbe l’obbligo di piacere a dio risultando vincente in tutti gli ambiti della vita, e soprattutto dal punto di vista professionale e finanziario, e devolvendo parte della propria ricchezza alla Chiesa in segno di obbedienza. La teologia della prosperità demonizzerebbe, quindi, i poveri, tali per loro scelta, associandoli all’incapacità di “guadagnarsi” (letteralmente) il paradiso, o addirittura additandoli come i principali responsabili dei disastri ambientali (Presidente Bolsonaro, World Economic Forum, gennaio 2020).

Nondimeno, paradossalmente, le chiese evangeliche godrebbero di un ampio seguito nelle favelas e di boss del narcotraffico, convinti che le loro donazioni materiali a dio o nella erezione di templi – come quello immenso di Salomone inaugurato nel 2014 a Sao Paulo – siano sufficienti a giustificare l’assoluzione dai crimini commessi. Per quanto posticce possano sembrare le loro pretese religiose, lo Iurd e le altre chiese evangeliche costituiscono il blocco elettorale più compatto all’interno del Parlamento brasiliano, con ben 203 deputati sui 594, tanto da essere diventato una forza inaggirabile nel paese.

Il loro specifico peso elettorale si è reso evidente nella virata a centottanta gradi nella politica estera del paese verso Israele operata dal presidente Bolsonaro nel gennaio 2019, all’atto della sua elezione, elevando le relazioni con il piccolo paese ebraico a priorità del colosso Bric. Tale decisione, come evidenzia Lemes Dias, non trova alcuna giustificazione nel debole interscambio commerciale in corso tra i due paesi o in altre ragioni politiche che esulino dalla religione. Ma come si spiega questa attrazione viscerale delle chiese evangeliche verso Israele?

Gli evangelici si definiscono infatti “cristiano sionisti” perché ritengono che il ritorno degli ebrei in Terra santa e la ricostituzione dello Stato di Israele abbia annunciato la fine del mondo e il ritorno del messia (Gesù). Per questa ragione i loro pastori invitano costantemente i fedeli a pregare per Israele, collegando l’immagine di successo del paese ebraico ai loro miti di prosperità, cioè propagandando il mito di un piccolo paese privo di risorse riuscito ad affermarsi come grande potenza tecnologica in una regione difficile come il medio oriente. I fedeli evangelici aspirano a diventare parte di quel “popolo eletto” ebraico che eccelle in tutti i campi e che è ricompensato da dio con i suoi servizi e la sua protezione.

A questo scopo, la Iurd e le altre chiese pentecostali organizzano periodici pellegrinaggi e tour in Israele per i loro fedeli e costruiscono templi per accoglierli a Tel Aviv, Haifa e Nazareth, rafforzando una “relazione speciale” che beneficia entrambe le parti: le chiese evangeliche, per i vantaggi che ne derivano alla loro presenza e diffusione in Terra Santa e presso i popoli africani tra i quali operano come missionari, e Israele, costantemente alla ricerca di un sostegno diplomatico in paesi terzi.

Tuttavia, come suggerisce Lemes Dias, le ragioni profonde di questa alleanza potrebbero essere ancora più controverse: il governo brasiliano sarebbe, infatti, impegnato in un genocidio culturale degli indigeni che passerebbe anche per il sostegno ad una chiesa integralista come quella evangelica, ben disposta a riscrivere la storia culturale del Brasile attraverso lo sradicamento di culti di matrice africana, non a caso costantemente oggetto di atti vandalici da parte di fedeli evangelici. Alle presidenziali del 2022, gli evangelici sosterranno Bolsonaro augurandosi la sua rielezione per un Brasile sempre più conservatore e teocratico e la pace in Terra Santa sotto la salda egemonia israeliana: c’è solo da augurarsi che al loro progetto culturale si opponga un blocco altrettanto compatto a favore di un’alternativa.

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