Dopo le proteste di ambientalisti e della società civile, ora anche i colossi minerari brasiliani chiedono – in opposizione alla linea di governo – una regolamentazione dell’estrazione mineraria, tenendo conto delle esigenze dei nativi e di quelle ambientali, in particolare della tutela per la foresta pluviale. Le multinazionali minerarie responsabili della ricerca e dell’estrazione delle materie in Brasile hanno infatti preso le distanze dalle politiche “estrattiviste” del presidente Bolsonaro. Alcune grandi compagnie del gruppo Ibram – che unisce 130 soci, fautori dell’85% della produzione mineraria nazionale – hanno interrotto la ricerca e l’estrazione dei minerali dalle aree dove abita la popolazione indigena amazzone, opponendosi di fatto alla legge proposta dal presidente brasiliano, che mira a consentire l’estrazione nel paese senza alcun vincolo per le terre indigene. “La regolamentazione delle attività economiche riguardo alle terre indigene – ha annunciato l’Ibram in una nota – deve essere attuata solo a seguito di un ampio dibattito nella società”.
Gli scontri sulla legittimità dello sfruttamento – voluto dall’attuale governo – delle risorse di quelle terre risale almeno al 2020, o meglio alla campagna elettorale di Bolsonaro (2018), che ha fatto degli indigeni un capro espiatorio fondamentale nella sua proposta politica: accusati di ostacolare lo sviluppo economico del Brasile, l’attuale presidente fa leva non tanto sulla porzione dei territori occupati (il 13% del paese), ma piuttosto sulla loro “qualità”, in quanto aree ricche di risorse minerarie – diamanti, oro, niobio etc. All’espropriazione delle terre indigene finora si sono opposti i rappresentanti delle comunità nazionali e i vari gruppi ambientalisti, che oltre alla necessità di tutelare la popolazione indigena, lanciano l’allarme per il rischio di una ulteriore deforestazione dell’Amazzonia.
Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, Bolsonaro ha ricominciato a far pressione sul Congresso perché approvasse la proposta di legge, adducendo come motivazione il fatto che il conflitto ha messo in crisi la fornitura di fertilizzante potassico – circa un quarto della domanda del prodotto veniva soddisfatta dalla Russia – essenziale nelle coltivazioni agricole su larga scala e di cui il Brasile è uno dei più grandi importatori al mondo. In risposta, la società civile si è organizzata in una manifestazione a cui hanno partecipato da migliaia di persone, Ato pela Terra – “Agire per la Terra”, ideata dal cantante Caetano Veloso: “Un ecocidio”,“condannano il paese, l’ambiente, la nostra reputazione internazionale e mettono a rischio la sopravvivenza dell’Amazzonia e gli obiettivi dell’accordo di Parigi”, “è ora di scendere in strada e mostrare i nostri volti” sono alcune delle voci degli attivisti scesi in piazza.
Raul Jungmann, presidente di Ibram, ha esplicitato la posizione dei colossi minerari specificando che l’associazione non è “contraria in linea di principio” ad estrarre minerali dalle terre indigene, ma ritiene sia necessario seguire un regolamento costituzionale che si basi sul “consenso informato delle popolazioni locali” e legiferare una nuova regolamentazione sull’attività estrattiva – che il Brasile discute e attende da circa un trentennio. Bolsonaro, dal canto suo, ha cercato in tutti i modi di ostacolarne la realizzazione. Ad oggi, per Jungmann la proposta legislativa del governo brasiliano è “inadeguata” perché non richiede un “consenso libero, preventivo e informato”, permette l’estrazione mineraria “illegale” e “non preserva l’ambiente, in particolare la foresta pluviale”: l’attività estrattiva potrebbe dunque essere realizzata “solo dopo un ampio dibattito e l’approvazione di regolamenti specifici da parte del parlamento brasiliano”. Delle aziende appartenenti al gruppo Ibram, in conclusione, nessuna sta svolgendo ricerche per l’estrazione di minerali nelle zone indigene, compresi i colossi del settore Anglo American, Rio Tinto e Vale.