Suscita amarezza e anche indignazione ascoltare l’ennesima denuncia sulla vittimizzazione delle donne nei tribunali. Se ne è parlato due giorni fa nella Conferenza stampa che si è tenuta nella sala Caduti di Nassiriya del Senato promossa dalla vicepresidente della Commissione Femminicidio, Cinzia Leone. Il caso di Frida (uno dei 36 fascicoli analizzati dalla Commissione Femminicidio) ha posto interrogativi, durante la conferenza stampa, sulla reale parità di diritti tra uomini e donne in caso di riconoscimento tardivo dei figli.

L’avvocato Andrea Coffari, le avvocate Teresa Manente e Camilla di Leo e la ctp Bruna Rucci hanno denunciato le storture di un sistema dove può accadere, nel 2022, che i diritti delle madri siano compressi per affermare un privilegio paterno.

Un padre biologico può tornare in qualunque momento e di prepotenza nella vita di una figlia mai frequentata e conosciuta e ottenere l’esercizio di un diritto ancor prima di essere legalmente genitore; ma una madre che rifiuti il figlio alla nascita ha le stesse chance?

Frida (ne ho già scritto) è una donna che ha portato avanti da sola una gravidanza subendo le pressioni dell’ex affinché abortisse. Il padre biologico, dopo la nascita della bambina, chiede il riconoscimento e pretende anche che le si cambi il nome che era stato scelto dalla madre. Vuole che sia chiamata come la nonna paterna. Più che un richiesta di partecipazione alla vita della figlia, pare la riscossione di un diritto proprietario. La bambina rifiutata in principio deve portare nella sua identità solo la traccia della discendenza paterna. La madre, Frida, avvalendosi della legge, si oppone al riconoscimento paterno, e per questo viene limitata la responsabilità genitoriale, viene sottoposta a verifica di ctu, dei servizi sociali e sanzionata con una multa spropositata (poi revocata) di 47mila euro per lite arbitraria. Le viene pignorato per mesi l’esiguo stipendio da insegnante con il quale mantiene se stessa e la figlia. Poi la sanzione viene sospesa.

“Il caso di Frida è emblematico. Questa vicenda tocca diversi punti. Il primo punto è l’articolo 250 del codice civile – ha detto l’avvocato Coffari – Laddove una donna decide di accogliere o di non accogliere un figlio si assume responsabilità enormi e irreversibili sulla sua pelle. Se un uomo decide di accogliere o di non accogliere un figlio non si assume nessuna responsabilità. L’ordinamento giuridico non lo penalizza in nessun modo e gli lascia la totale libertà di cambiare idea. Qui c’è un padre abortivo che nei primi tre mesi della gravidanza ha fatto di tutto perché la madre abortisse. Nella seconda fase della gestazione, quando non era più possibile abortire, c’è stato un abbandono psicologico, economico e morale. Questo padre ha deciso che su questo oggetto, che era la figlia, voleva prendere potere e comincia a torturare questa madre con denunce. Ha la fortuna di vivere in un tempo in cui il giudice per colpa di un impianto normativo, giurisprudenziale e culturale, non rintraccia la violenza, l’umiliazione, il dolore che un padre del genere rappresenta e fa entrare quest’uomo, che ha solo aggredito, nella vita della madre e della bambina”.

Contro il riconoscimento paterno stabilito dal tribunale pende un ricorso in Cassazione con eccezione di illegittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, quello sul riconoscimento dei figli. Se la Corte di Cassazione sospenderà il procedimento e trasmetterà gli atti alla Corte Costituzionale potrebbe esserci una modifica legislativa. C’è anche una proposta di legge a firma di Boldrini e di altri 29 parlamentari che nel primo articolo propongono la modifica dell’art. 250.

Le avvocate Teresa Manente e Camilla di Leo hanno ricordato due casi di riconoscimento tardivo da parte di madri e che, a paragone della vicenda di Frida, danno la misura di “un paradosso che stiamo vivendo in Italia e che deve portare tutti gli operatori ad uniformare le interpretazioni delle norme a rivisitarle e a riscriverle”. L’avvocata di Leo ha illustrato uno di questi due casi: “Una donna congolese che aveva subito uno stupro aveva deciso di portare a termine la gravidanza e alla nascita decide di non riconoscerla. Viene disposto lo stato di adottabilità, poi la madre ha un ripensamento. Il tribunale dei minori di Ancona considera che la violenza sessuale subita dalla donna ha influito sul suo stato psicologico e le consente il diritto ad un ripensamento: nel brevissimo termine poteva essere concesso. Il pubblico ministero impugna la sentenza e la Corte di Appello di Ancona con una lettura rigorossima e un’interpretazione iperletterale dell’articolo 11 della legge 183/1984, che dispone e richiede il diritto alla famiglia del minore, decide che il diritto al ripensamento non va riconosciuto vita natural durante ma accordato in limiti temporale definiti, onde evitare dei ravvedimenti formali che possano arrecare pregiudizio all’interesse superiore del minore”.

La legge 183 concede il ripensamento entro due mesi; allora perché alcuni padri con pessime condotte pregresse alle spalle possono usufruire di tempi molto ampi? L’avvocata Manente ha parlato di un filo rosso che lega le pratiche giudiziarie di vittimizzazione secondaria nelle cause di affidamento dei figli, documentate dalla Commissione femminicidi, l’imposizione del cognome paterno e le prassi in tema di riconoscimento di paternità e maternità. “Il cognome è la più evidente rappresentazione pubblica dell’identità personale. Lega una persona ad una storia e ad una linea familiare e come sappiamo in Italia fino ad ora ha prevalso il riconoscimento della linea paterna. Il cognome si conferma marchio di appartenenza e non è un caso che nelle richieste di riconoscimento tardivo di paternità gli uomini non solo chiedono l’aggiunta, ma l’anteposizione del proprio cognome a quello materno. La patrilinearità è una logica conseguenza del patriarcato e della accettazione della priorità e del privilegio maschile. Così avviene con la genitorialità paterna, intesa come espressione di potere proprietario del padre sulla prole, e anche come occasione per esercitare controllo sulla vita e sulla libertà delle donne”.

Nel sistema giudiziario coesistono luci ed ombre, sentenze come quella della donna congolese alla quale non è stato riconosciuto il diritto al ripensamento nonostante avesse avuto motivi per esitare – perché vittima di uno stupro – e sentenze come quelle che si sono espresse sulla vicenda di Frida e che hanno riconosciuto la paternità ad un uomo che ha avuto comportamenti irresponsabili senza che nessun giudice gliene abbia mai chiesto conto.

@nadiesdaa

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