A Milano qualche leghista prova a spacciarlo per un complotto: “Basta censura sui referendum sulla giustizia!”, gridava lunedì un gruppetto in presidio davanti a palazzo Marino. Ma se una censura sull’appuntamento del 12 giugno esiste, finora è arrivata proprio dal Carroccio. Anzi da Matteo Salvini, che attento com’è alla pancia del Paese ha capito in largo anticipo l’aria che tira: i cinque referendum sulla “giustizia giusta” da lui promossi insieme al Partito radicale sono ad altissimo rischio flop. E non da oggi ma da metà febbraio, quando la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati – il più popolare dei sei originari – nonché i due dell’associazione Coscioni su eutanasia e cannabis, che avrebbero garantito l’effetto traino. A fotografare la situazione è l’ultimo sondaggio di Demopolis: solo un elettore su tre è intenzionato a esprimersi (nonostante l’election day con le amministrative) e la maggioranza di loro direbbe no ai due quesiti più sensibili, quello per abolire la legge Severino e quello per impedire di applicare misure cautelari per il rischio di reiterazione dei reati. Insomma, il quorum è lontanissimo, per non parlare del successo alle urne. Così l’ex vicepremier “dimentica” di essere il presidente del Comitato promotore (insieme al radicale Maurizio Turco) e cerca di parlare dei referendum il meno possibile, per non far associare il proprio nome a una debacle ormai data per certa.

Sembra lontanissima la scorsa estate, quando Salvini faceva il tour dei gazebo e i manifesti col suo faccione e lo slogan “Chi sbaglia paga!” affollavano le strade delle città. Nonostante le decine di lanci d’agenzia partoriti ogni giorno sui temi più vari – dalla guerra al catasto alle telecamere negli asili al randagismo – nell’ultimo mese il Capitano ha sostenuto le ragioni dei referendum solo due volte, entrambe praticamente obbligate. E per di più rilanciando, con un certo effetto comico, la tesi della presunta censura. “Il sistema ha paura di voi“, ha detto il 9 maggio presentando un libro nella sede del Partito radicale. “Parlerò con la Rai, con Mediaset, per informare. Magari ci fossero i sostenitori del no, li pagherei: invece abbiamo chi sostiene il niente, il silenzio…”, ha aggiunto, in un involontario riferimento a sé stesso. Due giorni prima, il 7 maggio, in collegamento con l’evento “Cambiamo la giustizia” in un ristorante di Modena ha parlato di “una lobby del silenzio della politica, del giornalismo, di certa magistratura” contro i quesiti. A parte questo il leader della Lega è riuscito a produrre soltanto due rachitici tweet (postati uno dopo l’altro il 18 maggio) in cui invita ad andare a votare in risposta a Enrico Letta e allo sciopero dei magistrati: mentre per trovare un’altra sua dichiarazione compiuta sul tema bisogna tornare indietro di quasi un mese, al 10 aprile. Della “lobby del silenzio”, peraltro, sono candidati a far parte anche i suoi ministri: né Giancarlo GiorgettiErika StefaniMassimo Garavaglia hanno mai parlato a favore del sì nel 2022.

Tutto tace anche da Fratelli d’Italia, che si era smarcata fin da subito dai quesiti su cautelari e Severino (“sicurezza e lotta alla corruzione sono valori non negoziabili”, aveva detto Giorgia Meloni) e non è motivata a mettere la faccia sui tre referendum più “tecnici” (abolizione raccolta firme per candidature al Csm, separazione delle carriere e voto degli avvocati nei consigli giudiziari). Persino Silvio Berlusconi, che all’inizio aveva sposato la campagna con entusiasmo, non proferisce verbo dal 23 febbraio: per Forza Italia, nell’ultimo mese, hanno parlato dei quesiti solo la neo-coordinatrice lombarda Licia Ronzulli e la senatrice Gabriella Giammanco. E anche Matteo Renzi ha marcato le distanze: “I referendum hanno perso molto dell’appeal che avevano fino a quattro mesi fa. Io voterò a favore, ma non sono particolarmente ottimista”. A conservare un certo attivismo, oltre al Partito radicale (che posta ogni giorno contenuti sui social) c’è solo la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno, che negli ultimi giorni si è prodotta in una serie di “pillole video” sui diversi quesiti sulla pagina Facebook del Comitato per il sì (appena 571 likes).

Ma il paradosso più evidente è che a lottare per la causa come gli ultimi dei mohicani sono rimasti politici estranei al centrodestra, infastiditi più di tutti dall’opportunismo del Carroccio. In testa c’è Enrico Costa, già berlusconiano di ferro e ora “falco anti-pm” di Azione: “Fateci caso. Ora che sarebbe il momento di spingere i referendum sulla giustizia, dai promotori c’è silenzio tombale. Temono di intestarsi una sconfitta per assenza di quorum? È adesso il momento di esserci. Perché le convinzioni vengono prima dei calcoli sul quorum”, ha twittato qualche giorno fa. Concetto ribadito da Riccardo Magi di +Europa: “Da parte della Lega c’è stato un sostegno altalenante. Avendo scelto un po’ strumentalmente questa iniziativa l’ha abbandonata e poi l’ha ripresa, e questo non facilita di certo il raggiungimento del quorum”. E anche dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, del Pd: “Meno di un mese ai referendum sulla giustizia e tutto tace. Non ne parla nessuno, neanche chi li ha promossi. Io ribadisco i mei tre sì: separazione delle carriere, custodia cautelare e legge Severino”.

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