PORTO MARGHERA – Il drappo rosso dietro il palco, all’interno del capannone del Petrolchimico, è ancora il simbolo delle lotte operaie di Porto Marghera, il polo dell’industria e della chimica veneziana che conosce un nuovo capitolo di crisi. Il pugno chiuso su sfondo vermiglio, con la firma del Consiglio di Fabbrica, racconta le lotte dei lavoratori che risalgono all’epoca in cui altri erano i numeri degli occupati, ai margini della laguna di Venezia. “I nazisti delle Brigate Rosse hanno assassinato Taliercio. I lavoratori del Petrolchimico contro il terrorismo”: la scritta porta la data del 5 luglio 1981, il giorno in cui il corpo dell’ingegnere Giuseppe Taliercio, il direttore dello stabilimento, fu fatto trovare dentro una Fiat 128, crivellato con 17 colpi. Tre immagini, tre segni rimasti nel tempo, campeggiano ancora nella grande sala che da oltre mezzo secolo ospita le assemblee dei lavoratori, tra via Bottenigo e via Fratelli Bandiera. Questo luogo, simbolo di una Marghera industriale che sta cambiando volto sempre più velocemente, è stato occupata da un presidio permanente.

“Noi da qui non ce ne andiamo, finché non ci daranno rassicurazioni sulla salvaguardia occupazionale e sul destino di un luogo che appartiene alla nostra storia” spiega Daniele Giordano, segretario della Funzione Pubblica, a nome di tutta la Cgil. In una settimana sono, infatti accaduti, due fatti importanti, entrambi negativi dal punto di vista del movimento dei lavoratori. Il 10 maggio Eni Versalis ha avviato le procedure per fermare, nell’arco di una settimana, l’ultimo segmento della chimica di base rimasto a Porto Marghera. Si tratta degli impianti di Cracking e degli Aromatici, ovvero gli stabilimenti con le enormi ciminiere che innalzano verso il cielo le famose “torce”, che bruciano i residui delle lavorazioni. Occupano 120 persone, che dovrebbero comunque conservare il posto di lavoro, anche se in totale sono circa 360 i dipendenti della società. In secondo luogo, Eni Rewind ha deciso di liberarsi del capannone delle assemblee sindacali (859 metri quadrati di superficie e circa 2.500 metri quadrati all’esterno), che il Comune di Venezia acquisterà per una somma di 3.920 euro, con l’impegno ad effettuare investimenti per 320mila euro in cinque anni. Una decisione contrastata, passata con 23 voti a favore in consiglio comunale, mentre 11 rappresentanti delle minoranze hanno disertato la votazione.

La Cgil occuperà in modo permanente il capannone per protestare contro entrambe le decisioni. “È gravissimo quanto sta avvenendo, nel totale silenzio dell’amministrazione comunale. Eni sceglie di proseguire con le dismissioni della nostra industria chimica senza precisi e chiari impegni per il futuro, senza un progetto di rilancio e garanzie per la costruzione di un vero polo innovativo della chimica verde che crei occupazione e prospettive per il nostro territorio” aggiunge Giordano.

Nell’area di Porto Marghera lavorano ancora 12mila persone, il che conferma come questa sia ancora delle aree industriali più grandi in Italia. “Per responsabilità della giunta Brugnaro, non vi sono investimenti e non c’è nessun progetto sul PNRR. Il Comune, inoltre, acquista il capannone senza nessun accordo con le organizzazioni sindacali, non avendo mai risposto alle nostre numerose richieste di incontro. Non si può dimenticare che esso è il luogo simbolo delle lotte dei lavoratori dove per 52 anni si sono svolte assemblee, riunioni e dibattito sulle vertenze e sul futuro di questo territorio”. Cosa diventerà passando al Comune di Venezia, che non ha concertato alcun progetto con i sindacati? La Cgil (a cui si è aggiunta anche Uilctem) avverte: “Non rappresenta l’archeologia industriale del nostro territorio, ma è un luogo vivo ed è da sempre la casa dei lavoratori. Non deve diventare un museo, perché la storia del movimento operaio continua e questo luogo ne è parte essenziale”.

I sindacati si chiedono che fine faranno le opere artistiche realizzate nell’arco di decenni, anche grazie al contributo dei lavoratori. Si tratta di tele, murales e sculture che raccontano la storia del movimento operaio. Per questo chiedono che restino al loro posto.

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