In un momento in cui la polemica sul gas russo infuria, proviamo a ragionarci sopra vedendo le cose un po’ più da lontano, cosa sempre raccomandabile quando sei davanti a situazioni con un forte contenuto politico ed emozionale. Quali sono le prospettive del grande cambiamento in corso?

Cominciamo da un articolo sulla transizione energetica verso le rinnovabili che ho pubblicato qualche anno fa insieme ai colleghi Sgouridis e Csala. E’ un articolo un po’ complesso e non facile da leggere, come è tipico di tutto quello che appare sulla letteratura scientifica. Ma vi posso riassumere la storia in breve.

L’idea è che qualsiasi cosa uno voglia fare in un sistema economico, ha bisogno di un capitale iniziale da investire e anche della capacità di sopportare delle perdite (“andare in rosso”) finché la resa dell’attività non avrà compensato i costi. Questo è vero sia se uno mette su una pizzeria che un impianto di produzione di energia. Era vero anche in tempi remoti, quando gli agricoltori dovevano conservare un po’ del raccolto dell’anno da investire come seme per il raccolto dell’anno successivo. Per questo nell’articolo parlavamo del “paradigma del seminatore”.

Nell’articolo, avevamo esaminato le prospettive di una transizione verso un sistema basato al 100% sull’energia rinnovabile sulla base di questi concetti: ovvero, quanto avremmo dovuto investire inizialmente in termini di energia per creare la nuova infrastruttura? E poi, quanto saremmo andati in rosso prima di recuperare gli investimenti e registrare un saldo positivo? Avevamo anche messo un limite fondamentale alla quantità di combustibili fossili bruciabile, tenendo conto dei limiti previsti dal trattato di Parigi del 2015. Era il “paradigma del seminatore” applicato alla transizione energetica: quanto seme dovevamo mettere da parte per il raccolto dell’anno successivo?

I risultati? Beh, veniva fuori che occorrevano investimenti giganteschi in termini di energia fossile per arrivare alla transizione energetica abbastanza alla svelta da evitare di sfondare i limiti. Non era impossibile, però, posto che la transizione fosse programmata con cura nell’arco di una decina di anni.

Se la transizione non era programmata bene, i nostri calcoli ci dicevano che rischiavamo il collasso economico. Per esempio, restare troppo dipendenti dai fossili ci portava a fronteggiare il declino delle riserve, o un cambiamento climatico drammatico, senza avere sviluppato le infrastrutture necessarie per passare alle rinnovabili. L’errore opposto era quello di tagliare troppo bruscamente l’energia fossile, prima che le rinnovabili fossero in grado di tenere in piedi l’economia da sole. In entrambe i casi, le conseguenze erano pesanti: senza energia, il sistema economico non può sopravvivere. Sarebbe stato come se l’agricoltore del “paradigma del seminatore” avesse deciso di mangiare tutto il raccolto di un certo anno, per poi morire di fame l’anno dopo.

I nostri calcoli erano del 2017, ma rimangono ancora abbastanza validi. Altri ricercatori hanno trovato risultati simili, e stiamo anche noi lavorando a un aggiornamento che dovrebbe essere pubblicato entro quest’anno. In sostanza, i costi delle rinnovabili si sono molto abbassati, oggi, ma la transizione rimane costosa e va gestita con estrema cura per evitare di ottenere i risultati opposti a quelli che uno vorrebbe.

Questo risultato è rilevante per quanto riguarda le importazioni di gas russo. Interrompere bruscamente le forniture potrebbe portarci a non avere sufficienti risorse da investire nella transizione. Questo non tanto per la mancanza di gas in assoluto, ma perché il gas sul mercato libero costa, al momento, cinque volte di più del prezzo che si riteneva “normale” meno di un anno fa. In sostanza, la voglia di fare tutto e subito ci potrebbe portare alla rovina economica.

Questo vuol dire che siamo condannati a rimanere legati ai fossili per sempre? Assolutamente no. La transizione si può fare, si deve fare, e si farà (si deve fare per forza: i combustibili fossili non sono infiniti, così come non è infinita la capacità dell’atmosfera di assorbire i prodotti della combustione dei fossili senza surriscaldarsi). Vuol dire però che dobbiamo programmare la transizione sulla base di quello che possiamo fare in vista di un futuro dove l’Italia si renda indipendente dalle importazioni energetiche, e quindi al riparo dai ricatti dei paesi produttori.

Invece, se ci fate caso, il governo Draghi non ha preso nessun impegno concreto sulle rinnovabili. Tutta l’azione del governo rimane centrata sui fossili. L’idea è più che altro cambiare fornitori, usare fonti più inquinanti e più costose, scaricando i maggiori costi finali sugli utenti. Ma non si vede nessuna prospettiva a medio e lungo termine per una vera transizione energetica.

Allora, possiamo e dobbiamo dire al governo che non ci servono slogan a effetto come, “volete la pace o i condizionatori?”. Quello che ci serve è un piano strategico realistico per passare alle energie rinnovabili il più velocemente possibile, ma che tenga conto della necessità di avere energia a prezzi ragionevoli per mantenere in piedi l’economia italiana durante la trasformazione. Solo così potremo fare qualcosa di concreto per la pace e per il bene di tutto il pianeta.

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