Perché la Open Arms andò al largo di Lampedusa e restò lì in attesa dell’autorizzazione allo sbarco, invece di andare altrove? L’udienza di venerdì all’aula bunker dell’Ucciardone a Palermo (la famosissima aula del maxi processo a Cosa Nostra), a carico di Matteo Salvini, ruota tutto attorno a questa domanda. A rispondere, per quasi sei ore, è stato il capitano della nave della Ong, Marc Reig Creus, che nell’agosto del 2019 sostò per 20 giorni di fronte alle coste italiane in attesa che le venisse indicato il Place of Safety, ovvero il porto sicuro in cui attraccare.

“La legge del mare impone che si vada nel porto più vicino e più sicuro” ha ribadito a più riprese il comandante spagnolo che è stato interrogato prima dalla pm Giorgia Righi e dalla procuratrice Marzia Sabella, poi dalle parti civili e infine dalla difesa di Salvini, affidata all’avvocata e senatrice Giulia Bongiorno. Un’udienza fiume quella di venerdì, iniziata alle 10 del mattino e finita solo a tarda sera, intorno alle 23.30. Imputato l’ex capo del Viminale che ha perfino perso l’aereo di rientro previsto per le 19.50. Il leader del Carroccio è accusato dalla procura di Palermo di sequestro di persona e di rifiuto d’atti d’ufficio per i fatti dell’agosto del 2019, in particolar modo per quel che successe dopo la sentenza del Tar che aveva annullato il divieto di entrare in acque territoriali italiane. Da quel momento, il 14 agosto, passarono altri sei giorni prima che all’imbarcazione dell’Ong venisse concesso il Pos, e quindi il permesso di sbarcare. “L’Italia non rispose mai di no alla richiesta del Pos”, ha sottolineato Creus. Spiegando: “Abbiamo ricevuto una richiesta di aiuto via mail da Alarm Phone (una linea di supporto per i barconi in difficoltà nel mediterraneo, ndr) che ha inviato una mail a noi e in coda alle autorità maltesi e italiane. Siamo arrivati sul posto e abbiamo inviato l’equipaggio per verificare le condizioni delle persone a bordo e del natante, quindi abbiamo recuperato i migranti facendoli salire a bordo. Dopo, abbiamo chiesto il Pos a Malta e all’Italia. È quel che si fa in questi casi. Eravamo al confine tra Libia e Malta, ma non consideriamo la Libia un porto sicuro, quindi abbiamo chiesto a Malta che c’ha risposto con chiarezza di no, rifiutando di concedere il Pos”. “Perché non siete andati in Spagna a quel punto, vostro Paese e porto d’origine?” ha chiesto Bongiorno. “Perché il Pos si chiede ai paesi più vicini al posto in cui ti trovi”, ha risposto Creus. Che ha continuato: “Per noi Lampedusa era a quel punto il porto più sicuro, più vicino. Abbiamo chiesto all’Italia il Pos e non ha mai risposto di no. La risposta che c’hanno dato è stata soltanto che la nostra richiesta era stata inoltrata alle autorità competenti”.

Quell’agosto però il capo del Viminale aveva firmato un decreto che vietava l’ingresso nelle acque italiane. Su questo ha puntato tutto la difesa di Salvini, ovvero: perché Creus, alla guida dell’imbarcazione della Ong spagnola, si è portato al largo di Lampedusa pur sapendo di quel decreto? “Sapevo che rischiavamo sanzioni, multe, da 50mila euro si passò in quei giorni a un milione – così ci dissero – ma a noi non interessano le multe, interessa il salvataggio delle persone. In ogni caso mi sono mantenuto sempre oltre le 24 miglia dalla costa di Lampedusa, proprio per non forzare il divieto di ingresso”. Persone che nel frattempo erano triplicate, la Open Arms fece, infatti, altri due soccorsi in quei giorni, il 2 e il 9 agosto, fino ad arrivare a una capienza di 163 persone, rimaste dal 9 agosto al largo di Lampedusa, in attesa del sì allo sbarco.

Nel frattempo, infatti, la Ong aveva fatto opposizione al divieto di ingresso che infatti fu sospeso il 14 agosto dalla sentenza del Tar del Lazio: “A me nessuno ha detto che non avremmo avuto il Pos ma solo che c’era da aspettare”, questo ha ripetuto più volte Creus nella sua lunghissima deposizione, avvenuta in lingua spagnola, con l’ausilio dell’interprete. Ma perché il comandante della nave preferì attendere al largo di Lampedusa, invece che andare in Spagna? Questo è uno dei punti su cui ha più battuto la difesa di Bongiorno. “Non decido io dove vado, sono le autorità ad indicarmi un porto e io ero in attesa della risposta dell’Italia, mentre la situazione a bordo era sempre più tesa e la navigazione fino in Spagna impensabile anche per le condizioni meteo”, questa è stata in sostanza la spiegazione fornita dal capitano dell’imbarcazione della Ong. Prima di lui le testimonianze del medico, Vincenzo Asaro, e della psichiatra, Cristina Camilleri avevano riportato le condizioni dei migranti a bordo, costretti in una situazione con due bagni alla turca, sebbene puliti, e in condizioni psichiche di “urgenza”, così le ha definite l’esperta. E sarebbe stato proprio a causa della tensione a bordo che Creus si rifiutò di fare sbarcare i 39 recuperati nell’operazione del 9 agosto, che Malta si disse disposta a fare sbarcare: “Tutti o nessuno: dopo 9 giorni d’attesa, sarebbe stato complicato spiegare perché gli ultimi arrivati potevano sbarcare e loro no e ritenni che lo sbarco di una sola parte potesse aggravare la situazione di stress psichico accumulata dalle persone a bordo”, questo ha spiegato il capitano spagnolo che ha terminato la sua deposizione alle 20.

Dopo di lui l’udienza è proseguita con altri due testi: Alessandro Dibenedetto, psicologo di Emergency e Katia Valeria Di Natale, membro dello staff Cisom (Corpo italiano di soccorso dell’ordine di Malta). “Siamo qua a rispondere a un processo politico”, così ha commentato Salvini al termine della lunghissima giornata giudiziaria. In netto contrasto con quanto sostenuto dall’accusa che aveva invece sottolineato, richiedendo il rinvio a giudizio, come la contestazione si riferisca ad un atto amministrativo e non politico, sostenendo che dopo la sentenza del Tar, l’allora capo del Viminale non poteva rifiutarsi di concedere il Pos. Tesi condivisa dal gup, Lorenzo Jannelli che il 17 aprile di un anno fa decise per il rinvio a giudizio, e per questo Salvini risponde di rifiuto d’atti d’ufficio e di conseguenza di sequestro di persona, reato per il quale rischia una pena fino a 15 anni.

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