La vedo, la smorfia apparire sulla faccia del mio interlocutore, che poi si trasforma inevitabilmente in un sorriso di scherno, e l’immancabile frase “stanno bombardando un popolo, ci sono donne e bambini fuggiti di casa e tu che vuoi fare con i tuoi discorsi pacifisti, sembri un figlio dei fiori…”. E pare che ci goda, la persona che hai davanti, a rivendicare le sue ragioni, razionali e lineari. Tu vorresti dirgli che la tua non è una scelta dell’ultima ora, che sono praticamente quaranta anni che coltivi una cultura di pace e che hai fatto della nonviolenza il tuo tratto distintivo. Che non è un abbaglio dovuto alla guerra, contingente e maledettamente presente in tutte le prime pagine dei giornali, sugli schermi della TV, nei discorsi sui social e in quel che resta dei bar: in un batter di ciglia le parole della pandemia, spesso usate a sproposito con concetti come guerra, vittoria e battaglia, sono state proiettate dall’oggi al domani verso la crisi Ucraina. Gli infermieri e i medici, trasfigurati come eroi negli ultimi due anni, sono stati sostituiti velocissimamente dal presidente Ucraino e le sue sacche di resistenza interna.

In questo contesto ha buon gioco, l’interlocutore di prima, a far valere le sue ragioni. E parla di reazione immediata, di sanzioni da attuare, di strategie di guerra “che in questo momento non c’è altra soluzione, altro che il tuo atteggiamento da figlio dei fiori”. Così chiude il discorso, alza il suo muro nei tuoi confronti. E tu vorresti dirgli che non è una bestemmia essere pacifista, o meglio ancora un rappresentante di quella cultura nata nel ’68, ma che tu purtroppo hai vissuto con 10 anni di ritardo, essendo troppo piccolo allora, fosse una colpa da scontare. Ma ormai, lui si è chiuso in queste sue certezze e non c’è alcuna possibilità di dialogo.

Così devi constatare che la cultura della pratica nonviolenta nella gestione dei conflitti non ha attecchito intorno a te, neanche nelle organizzazioni e negli ambiti a te più famigliari. E te ne fai una colpa. Ma con i sensi di colpa non si va da nessuna parte. Perché c’è una parte di ragione negli atteggiamenti di chi ti sta attorno. Si sentono impotenti perché adesso sono inseriti in un contesto culturale che ci sguazza dentro la guerra, da qualunque parte lo si voglia guardare. Perché la cultura di guerra identifica sempre un nemico e la parte giusta, e tu devi trovare la tua posizione, qualunque sia: o di qua o di là.

Il problema è che, in un contesto dove i valori conclamati sono la ricchezza e il potere (economici, personali, militari, politici…), la pace presuppone la capacità di fidarsi gli uni degli altri. O perlomeno essere disponibili al confronto, senza preconcetti o pregiudizi e non arroccati in difesa della propria posizione. E ne discerne che, per far valere le mie ragioni, dovrei applicare un metodo aggressivo che non è nelle mie corde.

Judith Buttler, nel suo “La forza della nonviolenza” spiega il meccanismo in cui dobbiamo capire quale sia il “sé difeso in nome dell’autodifesa”, interpretando come si determinino la sua struttura e il suo ruolo sociale. E quindi spiega che il concetto di violenza non sia dato una volta per tutte, al contrario esso è sempre sottoposto a interpretazioni che ne manipolano il significato in senso politico. Per la filosofa statunitense “la violenza è sempre un concetto interpretato. Ciò non significa che la violenza non è nient’altro che interpretazione […]. Al contrario, significa che la violenza si dà sempre all’interno di contesti molto ampi, talvolta in conflitto tra loro, e dunque appare in modo diverso – o non appare proprio – a seconda di come le cornici implicate operano sulla questione”.

Stiamo parlando quindi di un concetto contestualizzato, che dipende fortemente da una struttura politica in oscillazione costante, equivoca e performativa. Questo il fenomeno di fronte a cui ci si trova; o meglio, i fenomeni, dal momento che le strutture di violenza sono molteplici e interpellano i cittadini in maniera diversa. L’aspetto più affascinante delle tesi della Buttler è quando riflette sul fatto che spesso l’aggressività non coincida completamente con la violenza, invece per lei esistono forme di violenza non aggressiva, ma, soprattutto, forme di nonviolenza aggressiva. Il tema, quindi è come riuscire a rivendicare i tuoi concetti, anche quelli nonviolenti, senza essere aggressivi? E qui parte tutto il ragionamento critico alla concezione individualistica del soggetto. Cosa intendiamo come individuo? Lei analizza il personaggio di Robinson Crusoe, vede un individuo, astratto dal politico, che vorrebbe essere del tutto capace di provvedere a se stesso, libero e autosufficiente. Invece, anche la pandemia ci ha dimostrato esattamente il contrario: la cura necessita l’abbattimento delle barriere e la pratica della solidarietà. Ma in maniera utilitaristica, solo per uscire dall’emergenza, recuperando poi la propria individualità. La filosofa riprende la figura del genitore che aiuta il figlio a sopravvivere per poi venire spazzato via dalla sua volontà di indipendenza.

Quindi per superare il concetto di violenza dobbiamo anche allargare il nostro pensiero atavico su quello che consideriamo “famiglia”. La solidarietà, propria dei legami famigliari, deve essere estesa oltre, in una sorta di concetto di famiglia allargata che si estende anche a quello di comunità allargata. Che poi, se ci pensiamo bene, è anche il pensiero che sta alla base della moderna ecologia: o ci salviamo dalla catastrofe tutti insieme o non si salva nessuno. Ma per farlo dobbiamo riprendere il concetto di Langer sull’attrazione: “Bisognerà quindi rendere “attraente”, convincente la pace: quella tra gli uomini e quella con la natura. Dirà qualcuno: non è stata sempre, la pace, il supremo desiderio dell’umanità, non è sempre stata insensata la guerra? Cosa occorre di nuovo e di diverso per rendere attraente la pace?”. E’ quindi necessario essere noi stessi esempio da proporre come modello vincente.

Per la Buttler, l’uso della violenza viene sempre giustificato se si mettono a rischio comunità riconosciute nella loro somiglianza al proprio sé, per esempio se a essere minacciati sono la famiglia, gli amici o il clan a cui il singolo appartiene. Ci troviamo di fronte a un ragionamento paradossale che viene illustrato come una doppia interdizione: all’interno del clan, tra i membri del gruppo, vige il divieto all’uso della violenza, ma la forza di tale interdizione ritorna una seconda volta come imperativo di uccidere nel caso in cui una minaccia esterna si rivolga a uno dei membri del gruppo; in altri termini, la violenza è consentita solo verso l’esterno, nell’eventualità che a rischio sia un gruppo in cui il sé si riconosce ed è giustificata, in parole povere, dallo stesso argomento per l’autodifesa individuale. La prospettiva sarebbe allora quella di una guerra tra gruppi, entro cui la violenza viene proibita, ma fra cui l’uccisione viene permessa: una dinamica psichica che limita la nonviolenza a un ristretto gruppo di individui riconosciuti come simili. Ma questo è inaccettabile. O la nonviolenza è estesa a tutti e tutte, oppure il suo concetto stesso smette di esistere. È proprio nella potenzialità di una guerra costante, che viene falsamente ritrovata anche nelle azioni espressamente nonviolente, che la filosofa trova il vincolo etico a un’azione nonviolenta, che io condivido in pieno.

Quindi il pacifismo delle marce, degli appelli e del “No alla Guerra” va bene, ed è per questo che io ieri, oggi e domani sarò sempre presente nelle piazze, ma non può limitarsi a questo. Il cambiamento deve essere sempre presente nelle nostre vite, per fungere da modello. Fuori dalle emergenze deve essere un lavoro costante per abbattere le nostre barriere (individuali, famigliari, politiche, sociali) e deve essere supportato da azioni concrete. Uscendo dalla logica del clan, per arrivare a una condivisione sociale delle proprie vite.

Io sono consapevole che sia necessario prendere posizione in difesa del popolo ucraino contro l’aggressione russa, ma dovremmo farlo proponendo soluzioni che appartengono alla cultura pacifista. Per questo sogno la forza di un contingente di pace, formato da cittadine e cittadini che sostengono le lotte nonviolente ovunque ci sia bisogno. Una parte di loro dovrebbero volare a San Pietroburgo e Mosca adesso ad esempio, per sostenere le lotte dei cittadini russi che si oppongono alla guerra e rischiano la Siberia. Ma che anche, a livello europeo, dovrebbe essere disponibile a inserirsi come cuscinetto ovunque scoppino nuove guerre. Persone in carne ed ossa che, se presenti in quei contesti, sarebbero difficili da annientare, perché non rappresentanti di nessun clan, nessuna parte in gioco. Sono consapevole che per realizzare tutto questo è necessario prepararci in tempo, proporre la questione nelle nostre proposte politiche, per non non arrivare impreparati ai momenti di crisi con soluzioni proprie della cultura nonviolenta. Ad esempio lavorando perché il Parlamento legiferi per i corpi civili di pace, un servizio civile universale per consentire ad almeno 100.000 giovani di parteciparvi, e che questa idea venga estesa anche all’Unione Europea. Oppure facendo passare la proposta di legge “Un’altra difesa è possibile”, che contempli in Italia e in Europa una difesa non armata, civile e non violenta. Così potrei rispondere al mio interlocutore di turno: “Sì, sono un figlio dei fiori, e allora?

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