Cultura

Pittori, star della lirica e perfino la madre di Frankenstein: c’è un affollamento di fantasmi a Livorno. Ville, musei, il Comune: la mini-guida

In "Fantasmi a Livorno" Ursula Galli disegna una mappa di tutti i luoghi in cui sono stati avvistati, sentiti o anche solo percepiti spiriti, presenze, apparizioni, ombre che camminano, chiacchierano, suonano, cucinano. Vecchie leggende, storie tramandate, telefoni senza fili e racconti di prima o seconda mano sul filo della battuta della scrittrice Madame du Deffand: "Se ci credo? No, ma ne ho paura"

di Diego Pretini

Qualunque malcapitato abbia avuto la sorte di attraversare Livorno nel giorno di Ferragosto avrà senz’altro avuto la spiacevole sensazione di essere finito in una città di fantasmi, salvo scoprire poi una densità di popolazione con standard pechinesi lungo la scogliera del Romito. E d’altra parte uno spettro si è materializzato davvero qui a Livorno, dopo essersi a lungo aggirato – come profetizzato – per tutta Europa: è nato qui, come sanno tutti, il Partito comunista d’Italia. Ma ora si scopre che – altro che metafore e spiritosaggini – Livorno ha davvero un conto aperto con i fantasmi: spiriti, presenze, apparizioni, ombre che camminano, chiacchierano, suonano e cucinano e lo fanno – come il ricettario di Edgar Allan Poe suggerisce – nelle più belle e antiche dimore della città (a volte scalcinate, a volte lottizzate con grande successo), senza però disdegnare i musei, l’ospedale, il Comune e perfino la sede del Partito liberale italiano, a dire il vero abbastanza fantomatico già all’epoca in cui correva alle elezioni. Ursula Galli, giornalista, capo ufficio stampa del Comune livornese, disegna la mappa per il ghostbuster provetto in Fantasmi a Livorno (edizioni Erasmo, 192 pp., 15 euro), che si basa su inchieste sul campo, vecchie leggende, storie tramandate, telefoni senza fili, racconti di prima mano ma anche di seconda e magari di terza, agevolati dal fatto che il tempo che passa permette di eludere una cavillosa verifica scientifica.

La copertina di “Fantasmi a Livorno” è firmata da La Tram

La rievocazione degli spiriti diventa il pretesto per la scoperta delle storie tutte terrene legate a Livorno. L’occhio dell’autrice è privo di pregiudizio. La sua posizione dichiarata, premette, è quella sintetizzabile in una fulminante battuta di Madame du Deffand, scrittrice francese, intellettuale, ostessa di salotti intellettuali, amica di Voltaire e D’Alembert: “Lei crede nei fantasmi?” le chiesero. “No, ma ne ho paura”.

Per esempio a Villa delle Rose, lungo le pendici di Montenero – un borghetto collinare noto come meta di pellegrinaggi di devoti alla Madonna per il santuario benedetto dalla visita di Giovanni Paolo II -, raccontano di aver visto girellare qua e là una bambina bionda e ci sarebbe poco da stupirsi se non fosse che la ragazzina gironzolasse al primo piano dentro stanze senza più il pavimento e questa volta Endrigo non c’entra. La storia sarebbe questa: la fanciulla – secoli fa ma non si sa bene quando – fu rinchiusa in convento perché il padre voleva che smettesse di vedere un giovanotto. Lei delle paturnie del padre se ne fregò, perché l’amore vince su tutto. Tra le poche eccezioni però ci sono dei sicari ben pagati che difatti trafissero con una spada la giovincella e il relativo fiancé, non mancando di decapitare il disgraziato. Per questo da allora la ragazza fluttuante gira e rigira con la testa in mano da una parte e una candela dall’altra (perché poi uno inciampa) alla ricerca del corpo mancante dell’innamorato.

Nel corso dei secoli Villa delle Rose – per gli strani giri della storia – è stata mille cose: da abitazione di Guerrino, eroico comandante dei contadini livornesi che alla fine del Quattrocento difesero Livorno dalle truppe di Massimiliano I d’Asburgo (episodio finito anche in un quadro del Vasari) a sede clandestina del Comitato di liberazione nazionale. La genealogia catastale accoglie anche personaggi mondiali. Nella primavera del 1822, per esempio, si stabilì qui per un mese e mezzo George Gordon Byron, uno dei massimi poeti inglesi, delle cui villeggiature brevi o lunghe – bisogna dire – si può vantare quasi ogni Comune d’Italia. Ospiti di Byron furono anche i coniugi Shelley che passarono alcuni giorni a Livorno per discutere di una rivista politico-culturale.

In realtà per Percy e Mary era l’ennesimo salto in questa città ai tempi era meta di villeggiatura ambita anche all’estero. Qui Percy Shelley, ispirato dal suo girellare nella macchia delle colline di Livorno, ha composto To a skylark (che suona molto meglio in inglese che in italiano: A un’allodola) e la tragedia I Cenci. Ma siccome la prima volta degli Shelley a Livorno era stata nel 1818, cioè l’anno di pubblicazione – senza firma – di Frankenstein, ai livornesi piace pensare che la moglie Mary abbia buttato giù qualche capoverso di quel capolavoro in quelle settimane. Visto che un fantasma non si nega a nessuno, Ursula Galli racconta che nel villino dove abitavano a Livorno, non lontano dall’ospedale, “nelle notti d’estate, sul tetto, sembra che sia stata vista una creatura eterea passeggiare e sospirare: la voglia di trovarle un’identità” porta il pensiero proprio su di lei, la geniale ideatrice di Frankenstein. Di sicuro c’è che, viceversa, Livorno compare dentro Frankenstein (è la città in cui scappano alcuni personaggi che poi hanno a che fare con la povera Creatura).

A Villa Morazzana, sempre a Montenero, l’ultimo custode raccontava di sentirsi osservato mentre lavorava in giardino e di aver intravisto un volto dietro alle finestre. Altri inquilini, invece, hanno giurato di sentire un acuto di un soprano. Mancherebbe il terzo indizio per fare una prova, ma per trovare un filo logico basta raccontare che qui dentro hanno vissuto e si sono amati Gemma Bellincioni e Roberto Stagno, che nel 1890 sono stati la prima Santuzza e il primo Turiddu della storia, entrambe star del verismo operistico. Il loro amore, nato su una nave per Buenos Aires durante una tournée, non c’entra nulla con lo strazio della coppia protagonista della Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni. Ora sono uniti per sempre insieme nel piccolo cimitero di Montenero.

Gabriele Gabrielli, poi, era un’anima inquieta in vita, figuriamoci da morto o da presenza ultraterrena, cioè nella forma in cui si paleserebbe in un’abitazione del centro della città. Ossessionato dalla morte e dai gufi, appassionato di Poe, di Baudelaire e di alcol, si ammazzò con un colpo di rivoltella a 24 anni, nel 1919. “Frequentatore assiduo di sedute spiritiche e di cimiteri, esponente di una certa bohème satanica livornese – scrive Galli nel libro – Gabrielli corteggiò la morte con la sua arte per tutta la sua giovane vita”. Durante la quale fece comunque in tempo ad ottenere la stima oltre confine. Il libro ricorda la descrizione che ne fa il pittore belga Charles Doudelet, un altro che si fermò qui (parafrasi da Bobo Rondelli). “Le tormentose agonie e l’orridezza della morte, lo spasimo oscuro delle tristezze più profonde – scrive Doudelet – travolgono, opprimono, eccitano la fantasia nevrotica di questo artista finché trovano l’espressione loro nel colore”. Gabrielli sceglie la strada opposta dei macchiaioli: niente sole, niente tramonti, niente orizzonti di barche in mezzo al mare. I suoi quadri portano nomi come La cavalcata della morte, I fiori del male, Sul letto di morte, Ospedale notturno. A 21 anni, in una lettera al suo maestro Benvenuto Benvenuti – macchiaiolo e poi divisionista –, scrive: “La morte flagellatrice danza in un cielo nero dove le stelle appaiono semispente, avvolte in un sudario di follia più cupa del cielo, incoronata dalla stella maligna fedele compagna, che è il corpo della sua anima. Sugli omeri, le ali falciate hanno riflessi di acciaio brunito sotto i raggi biancastri del disco lunare. Essa danza, danza e sulla impudica faccia sorride la Morte, sola sorella in eterno dell’arte. Intorno i pipistrelli volano, sfiorando la loro rejna, raccontandosi tra loro cose misteriose e belle”.

Non ci sono solo spettri vip: mogli di soldati morti in guerra, babysitter scozzesi, bambine in fuga, altre che cercano la mamma. Non ci sono solo spiriti umani: a Villa Ombrosa c’è un piccolo cimitero dei cani che avevano trotterellato in quei giardini. E ci sono mummie scambiate per fantasmi. E’ il caso di Gaetano Arrighi, detenuto aretino del bagno penale di Livorno che nel 1836 si ammalò di pleurite e andò all’altro mondo. Il direttore dell’ospedale cercò di trattenerlo in questo, sotto le mentite spoglie dell’imbalsamazione (per scopi scientifici). Così Gaetano fu usato per qualche tempo come modello per insegnare anatomia agli infermieri. Il problema è che a un certo punto giacque dimenticato nei sotterranei un po’ malconci dell’ospedale e si può solo immaginare la reazione di chi lo ritrovò nel 2005. Ora si trova in mezzo ad altre colleghe mummie egizie e precolombiane al museo di Anatomia umana dell’università di Pisa.

Il sentito dire si mescola con le storie mondane, la fantasia si accavalla con il sogno ed è proprio quando l’immagine si sfuma il momento in cui si invera. Galli è abile a intrecciare – in un libro che alterna i generi, dal racconto non fiction al resoconto cronachistico – le storie che ha raccolto in trame dalle quali far emergere al momento giusto qualche dettaglio inaspettato, ottimo per scambiare la signora del quarto piano che stende i panni per un poltergeist o magari per suscitare la tentazione di dare una mandata alla porta d’ingresso, deterrente che peraltro, come ben si capisce, nel caso di presenze immateriali ha un’efficacia significativamente limitata. L’autrice ci mette del suo quando racconta di aver visto sparire davanti ai suoi occhi, sul computer, un pezzo del capitolo che raccontava dello spirito di Wetryk, un prestigiatore che fu famoso in tutto il mondo tra la prima e la seconda guerra mondiale. “Da quel momento ho preferito riportare le storie così come mi erano state riferite – scrive Galli – Senza aggiungere storie inventate. Almeno, non inventate da me”.

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