Per dirla con enfasi, il primo a tracciare il solco è stato il sempiterno dc Dario Franceschini il 15 febbraio scorso, con un’intervista su Repubblica: “Avremmo tutti da guadagnare da un avvicinamento della Lega al centro, da una sua evoluzione in questa direzione”. Una Lega moderata con un Salvini moderato per fare che? Lo spiega con il consueto piglio da stratega di Roma centro Goffredo Bettini oggi sul Foglio, qualora Pd e Lega dovessero pareggiare alle prossime elezioni politiche, nell’autunno di quest’anno o alla fine della legislatura nel 2023: “Come in Germania si tenterebbe la strada della grande coalizione con un compromesso trasparente. Salvini ha l’occasione di fare della Lega con pezzi di FI, l’equivalente del Pd nel campo della destra”.

E così da un giorno all’altro, due settimane dopo il trauma del Quirinale e nel pieno della crisi profonda del M5S, Matteo Salvini, il capitano del sovranismo xenofobo, si ritrova oggetto degli amorosi sensi dei cosiddetti big democratici.

Tenendo conto che il segretario Enrico Letta già ha teorizzato il fatidico campo largo aperto ai moderati di Forza Italia, secondo l’usurata formula della maggioranza Ursula, cioè composto dalle forze che hanno votato l’attuale “europremier” Ursula von der Leyen. Se ne possono trarre quattro considerazioni.

1) Più che una strategia studiata per assecondare una “visione” della politica, quella avviata da Franceschini e Bettini rivela ancora una volta la vocazione cinica e tatticista dei dem per conservare e gestire il potere (Stalin lo chiamava “poterismo”). Non dimentichiamo che, tranne la breve parentesi del governo gialloverde, il Pd è al governo dal 2011 (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte II, Draghi). L’obiettivo è lo stesso che Massimo D’Alema perseguì e raggiunse nel 1995 quando con la proclamazione della Lega di Umberto Bossi a “costola della sinistra” dapprima favorì il ribaltone antiberlusconiano del governo Dini e poi la staccò dal Polo della Libertà in previsione del voto anticipato del 1996, quando l’Ulivo vinse proprio grazie al Carroccio che andò da solo. Oggi il fine machiavellico dell’operazione centrista del Pd è lo stesso: staccare Salvini da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni (definita da Bettini una forza “illiberale”) e sperare in elezioni senza vincitori. Un pareggio, appunto, con tre forze intorno al 20 per cento: Pd, Lega e FdI.

2) Una delle novità del ragionamento di Franceschini e Bettini è che per costruire un eventuale governo rossoverde non è necessario il sistema proporzionale, che al momento è osteggiato da tutti e tre i partiti di destra. Per Franceschini, “l’area conservatrice moderata del centrodestra” può nascere anche “senza cambiare” il Rosatellum, sistema che comunque prevede una quota di maggioritario che spinge alle coalizioni. In pratica, dopo le urne, assisteremmo a scomposizione del quadro politico come già avvenuto in questa legislatura tripolare. Certo se poi davvero dovesse passare un sistema proporzionale, ogni forza politica avrebbe tutto da guadagnare presentandosi senza vincoli e con le mani libere.

3) Un’altra novità, forse la principale, del tatticismo dem è che Draghi potrebbe anche non essere il perno a Palazzo Chigi di questo ultimo avvitamento politicista. La cronaca di giovedì è indicativa in merito. Il Migliore si sta prendendo la vendetta sui partiti che non lo hanno voluto al Quirinale e lo fa in nome di un populismo tecnocratico dall’alto, modello Marchese del Grillo. Per la serie: “Io sono io e voi non siete un cazzo, altrimenti non si va avanti”. Gli unici a teorizzare un suo impegno da premier anche dopo il 2023 sono gli aspiranti federatori del Centro con il cosiddetto “partito per Draghi”, non “di Draghi” per evitare il fatale errore di Monti nel dicembre del 2012 con la “salita in campo” del professore bocconiano.

4) La politica è una crudele selezione darwiniana, dove contano i rapporti di forza e non i sentimenti. E così persino l’ipercontiano Bettini si trova costretto a imbalsamare l’avvocato del popolo: “La sua figura è un patrimonio da rispettare”. Ovviamente, l’archiviazione dei giallorossi o giallorosa che siano si basa sul presupposto che il risultato pentastellato alle prossime elezioni non sia decisivo per governare. Cioè una cifra tra il 10 e il 14 per cento. In più il futuro del Movimento è denso di incognite, con lo scontro interno tra Conte, ancora popolare, e il Di Maio alfanizzato ormai parte integrante dell’establishment. Forse a questo punto al leader dimezzato di Cinque Stelle converrebbe far morire il governo Draghi, come pietra angolare su cui poggiare un rinnovato radicalismo dei 5S. E se la politica è anche confronto realista, col Pd che va cucinare il pane nel forno forzaleghista, a lui non resterebbe che un’interlocuzione con Fratelli d’Italia, la grande esclusa sull’altro fronte.

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