Televisione

Sanremo 2022, come ti distruggo i birignao intellettualoidi a suon di ceffoni nazionalpopolari

Sanremo esiste, insiste e resiste perché è la quintessenza dell’italianità: la buttiamo in caciara, facciamo ammuina, vale tutto e il contrario di tutto ma anche in quel momento di delirio collettivo, di furia distruttrice, di cattiveria senza precedenti contro un abito di dubbio gusto, una nota stonata, una papera o una battuta che non fa ridere, non ci dimentichiamo mai di prenderci troppo sul serio

di Domenico Naso

Per Benito Mussolini, che come è arcinoto non ci aveva capito un fico secco, gli italiani erano “un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori”. Questo curriculum da mitomani che fa bella mostra di sé anche sulla facciata del Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, però, forse andrebbe riscritto alla luce di oltre settant’anni di vita repubblicana. Noi italiani siamo un popolo di strateghi politici, allenatori della Nazionale di calcio e direttori artistici di Sanremo. Niente di più, niente di meno. E in questo primo scorcio di 2022 abbiamo modo di dimostrarlo ancora una volta. Sulla politica ci siamo sfogati ampiamente nella settimana farsesca dell’elezione del presidente della Repubblica. Per il calcio basterà aspettare fine marzo, quando ci giocheremo agli spareggi l’accesso ai mondiali. Questa settimana, però, l’attenzione è tutta rivolta a quella cittadina ligure scialba e un po’ fané che ogni anno, per sette giorni, diventa il centro di tutto, il polo di attrazione di ogni attenzione italica. La rielezione forzata di Mattarella è già diventata stantia, il Covid può attendere e figuriamoci a chi importa la crisi ucraina mentre sul palco dell’Ariston sfila in processione tutto il campionario nazionalpopolare di questo Paese da operetta.

La settimana di Sanremo è una sorta di rito collettivo di catarsi e purificazione, una valvola di sfogo che ha un ruolo e un’importanza fondamentale nella vita della comunità nazionale. Un ruolo e un’importanza accresciuti dalla situazione da film distopico di serie B che stiamo vivendo da due anni. Per alcuni, di solito quelli che per tutta la vita si dannano l’anima per darsi un tono che non hanno, Sanremo è il male assoluto. Se anche così fosse (e non lo è), sarebbe comunque un male necessario. Sono i nostri giochi gladiatori, i nostri Hunger Games, con la solita sfilza di impavidi guerrieri pronti a farsi sbranare dai leoni della pubblica opinione pur di lasciare un purché minimo segno nel panorama provincialotto dello showbiz italico. È il Sottosopra di Stranger Things che ti inghiotte e ti fa vivere una settimana in una realtà parallela che confonde, spaventa e soprattutto attrae con una forza magnetica che sa di incanto stregonesco. È inutile resistere a Sanremo. Chi ci prova, in buona o cattiva fede, è destinato a soccombere in un’orgia di opinioni non richieste, in una sospensione temporanea delle regole e delle convezioni sociali tipo i Saturnalia dell’epoca romana.
È un tacito patto tra sessanta milioni di persone che rende tutto lecito, che trasforma il kitsch in cult, che distrugge i birignao intellettualoidi a suon di ceffoni nazionalpopolari. Quest’anno, poi, il patto con il Diavolo sanremese è più trasversale che mai. Gianni Morandi e Blanco, Massimo Ranieri e Mahmood, Iva Zanicchi e Sangiovanni: c’è tutta Italia, nella chiesa sconsacrata del pop. E in un Paese in cui, a giorni alterni, questa o quella fascia di italiani non si sente rappresentata, è già un miracolo.

Sanremo esiste, insiste e resiste perché è la quintessenza dell’italianità: la buttiamo in caciara, facciamo ammuina, vale tutto e il contrario di tutto ma anche in quel momento di delirio collettivo, di furia distruttrice, di cattiveria senza precedenti contro un abito di dubbio gusto, una nota stonata, una papera o una battuta che non fa ridere, non ci dimentichiamo mai di prenderci troppo sul serio. Sanremo è leggerezza pesante, altra dote innata dei bislacchi abitanti dello Stivale. È vuoto pienissimo. È orgia timorata di Dio. È la summa delle contraddizioni di un Paese che ha solo una settimana l’anno per abbassare le difese e mostrarsi così com’è, senza vergogna, senza facciate rispettabili di cartapesta, abbandonando il solito vizietto di mostrarsi agli altri migliori di quelli che siamo in realtà. La settimana di Sanremo è l’unica settimana dell’anno in cui l’Italia fa l’Italia, in cui ciascuno di noi è libero di essere chi è davvero. E in un mondo che ci obbliga a seguire un copione che le culture dominanti hanno scritto per noi, sette giorni di libera uscita culturale ed emotiva sono un dono del cielo. Godiamocela, dunque, quest’orgia sanremese, perché la noia supponente della normalità tornerà tra pochi giorni e ci terrà sotto scacco per altri dodici mesi.

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