Durante le vacanze un paziente, che avevo seguito per un problema sentimentale dieci anni fa, mi è venuto a trovare. Ora ha 36 anni e vive da parecchio a Londra dove si è accompagnato con una ragazza inglese. Lavorava nella City in una banca internazionale dove si occupava di “private equity”. Mi ha raccontato che lui e la compagna si sono licenziati. Hanno da parte un gruzzolo e hanno deciso di andare a vivere per alcuni anni nelle Filippine. Pare che con 20mila euro si possa comprare una casa. Non hanno intenzione di lavorare, ma di dedicarsi alla coltivazione di un orto per poi “inventare qualcosa su Internet”.

Sono andato recentemente a parlare a un convegno della Cisl; per preparare la relazione, che verteva sulle conseguenze psicologiche della pandemia, mi sono documentato con l’apporto di vari articoli. Risulta che negli Stati Uniti sia in voga quella che è stata definita Great Resignation o in alternativa Big Quit. Si tratta della tendenza a rassegnare le dimissioni dal lavoro e coinvolge un numero rilevante di persone. I numeri reali sono difficili da capire, ma diverse rilevazioni indicano 4-5 milioni di persone. La cosa interessate è che anche in Europa pare che il fenomeno stia emergendo con conseguente difficoltà crescenti delle ditte a trovare lavoratori.

In Italia esistono solo i dati delle dimissioni volontarie che parlano di un aumento nel 2021 di 800mila abbandoni del lavoro, rispetto al trend degli anni precedenti. Certamente molti di questi licenziamenti sfoceranno in nuove assunzioni ma, presumibilmente, il fenomeno dell’abbandono volontario del lavoro è parzialmente presente anche nel nostro paese.

Per la generazione del dopoguerra il lavoro era il mezzo del riscatto da una situazione di povertà e dipendenza dalla famiglia patriarcale nella quale venivi comandato a bacchetta. Il posto di lavoro e lo stipendio hanno rappresentato il modo di affrancarsi e poter realizzare i propri sogni costituti, per la maggior parte delle persone, dalla costruzione o acquisto di una casa e dalla costituzione di una propria famiglia. Nelle generazioni successive il lavoro, accanto alla soddisfazione dei bisogni primari, ha assunto il ruolo di realizzazione personale. Lo studio ha permesso a molti di noi di svolgere attività che rappresentavano un ideale di vita, oltre che un sostentamento economico.

Quindi, nel procedere delle generazioni, il lavoro è stato sempre più visto non solo come un modo per tirare avanti, ma come un obiettivo di vita. In questo momento storico, complice presumibilmente la pandemia, il lavoro appare come un giogo cui ci si assoggetta solo se non ci sono alternative. Il sogno individuale non pare più quello di svolgere un mestiere “appagante”, ma piuttosto quello di esprimere la propria creatività senza vincoli lavorativi e prescindendo dalle valutazioni economiche.

Chiaramente, solo chi ha una certa sicurezza economica può baloccarsi con questo atteggiamento un poco spocchioso verso il lavoro. Chi a stento tira a campare non si può certo permettere tanti fronzoli o pensieri inerenti le proprie aspirazioni, il contatto con la natura e la creatività della vita. Risulta interessante però notare che uno dei motori più rilevanti della società capitalistica, costituito dall’avidità di denaro e dalla bramosia di sempre maggiori averi, risulta inceppato per numeri consistenti di persone. Molti giovani non sono più disposti, come avveniva in passato, a lavorare tutto il giorno per comprare la seconda casa al mare o in montagna o l’auto di grossa cilindrata. Preferiscono una vita meno dispendiosa che però permetta di avere del tempo libero da dedicare alle attività che si considerano creative e a misura d’uomo.

Anni fa seguii per un periodo una ragazza che aveva perso il fratello per un carcinoma. I suoi valori, le sue aspettative e la sua propensione al lavoro erano stravolte. Non accettava l’idea che la vita e la sua inevitabile caducità, resa drammatica dalla vicenda del fratello, fosse solo costellata da doveri ed obiettivi imposti dalla società perché ”così fan tutti”. Metteva in discussione i desideri che le sue amiche esprimevano: i bei vestiti, i gioielli, il matrimonio, il lavoro sicuro e i figli. Affermava che voleva vivere la vita a modo suo, lavorando il meno possibile, solo per il proprio sostentamento, senza farsi condizionare da pulsioni che avvertiva come effimere. In effetti, a distanza di venti anni, credo sia riuscita nel suo intento in quanto vive in collina in una casa sperduta assieme al compagno con cui alleva cani e coltiva un vigneto. Vende le cucciolate e si accontenta degli introiti non particolarmente rilevanti di queste attività.

Ritengo che il cambiamento di aspettative sociali definito Great Resignation sia da studiare e analizzare in quanto più complesso di quello che può apparire a primo acchito. Dopo circa 70 anni di utilizzo massivo della pubblicità, che cerca di manipolare il desiderio degli esseri umani, questo fenomeno pare una reazione di rifiuto dei dettami imposti dalla società. Dove porti questo rigetto e se possa essere non solo marginale, per classi sociali sostanzialmente agiate, ma anche più diffuso, ce lo diranno i prossimi anni.

Articolo Successivo

Lavoro di giovani e donne, Italia fanalino di coda Ue. Il commissario Schmit: “Troppo abbandono scolastico e salari troppo bassi”

next