Cultura

Banksy, in un libro tutto quello che c’è da sapere sull’artista contemporaneo inglese più misterioso e amato al mondo

Il volume di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani (Giunti) è una eloquente, magmatica, dettagliatissima disamina pop che attraversa l’intera carriera creativa del nostro: dagli stencil al gangsta rat, dalla ragazza con il palloncino (anche e soprattutto quella triturata e venduta all’istante all’asta) fino all’incredibile temporanea esperienza di Dismaland e alle performance durante i lockdown dovuti al Covid

di Davide Turrini
Volete sapere tutto, ma proprio tutto su Banksy? Ecco, tutto a parte la sua reale identità? Banksy – titolo in cover con font elettronicamente sdrucciolevole – di Stefano Antonelli e Gianluca Marziani (Giunti) è il volum(on)e, dalla costruzione visiva assolutamente fantastica, che fa per voi. “Con Banksy funziona così: gli unici fatti oggettivamente veri sono le sue opere; quanto alla sua vita risulta complicato distinguere la verità epistemologica da quella mitologica”, mettono subito in chiaro Antonelli e Marziani per poi offrire una disamina pop, corposa e accattivante di una eclatante, misteriosa e politica “carriera” che non finisce mai, ma proprio mai, di stupire gli osservatori mondiali, perlopiù mai paganti.
Quindi preparatevi per salire sull’ottovolante Banksy dalle radici di vandalismo e antagonismo; passando per lo stencil, il Rage, the flower thrower, il gangsta rat, la ragazza con il palloncino (anche e soprattutto quella triturata e venduta all’istante all’asta); fino all’incredibile temporanea esperienza di Dismaland e alle performance durante i lockdown dovuti al Covid. Insomma, un lavoro dal “forte apparato scientifico curatoriale e non solo iconografico” che è il naturale proseguimento del progetto espositivo itinerante di Antonelli e Marziani iniziato sette anni fa con la prima mostra su Banksy fatta a Palazzo Cipolla di Roma, proseguita in mezza Europa, e ora in procinto di atterrare addirittura negli Stati Uniti.
“È il primo libro che affronta Banksy come un fenomeno sociologico dell’arte ma non solo dell’arte, produttore di oggetti soggetti iconici che hanno valenza globale, autore che ha stravolto tutte logiche di fruizione e distribuzione dell’opera”, spiega Marziani a FQMagazine. “L’ultima intenzione era quella di mitizzarlo. Il suo esercizio artistico è simile a quello di Maurizio Cattelan, Damien Hirst e altri che hanno una natura produttiva concettuale, ma semplicemente Banksy ha scelto come strategia di posizionamento la strada, la città, il mondo esterno e una serie di modalità che riprendono la militanza tipica del mondo street urban, l’illegalità, l’anonimato. Inoltre ha mutuato da tanti ambiti, come la grafica, la musica, il cinema – spiega Marzani – lui non è un inventore ma è un perfetto campionatore postmoderno che ha utilizzato una serie di dispositivi esistenti, li ha moltiplicati, divisi e ne ha fatto uso proprio”.
Basta aprire a caso le 235 pagine del volume per rimanere continuamente sorpresi. Prendi il bordone animalista di Banksy. Poco, o per nulla conosciuto. C’è quel Sirens of the lambs con peluche a forma di maiali e animali da allevamento intensivo stipati su camion a girare per New York o The village pet store and charcoal grill (2008) con pulcini a forma di McNuggets o pesciolini a forma di bastoncini fritti. O ancora: l’opera distrutta. Love is in the bin, del 2018 sminuzzata mentre viene venduta all’asta di Sotheby’s. “L’obiettivo era creare una scossa tellurica all’interno del sistema finanziario delle aste. Quel quadro che si sfiletta in diretta nella più importante casa d’asta del mondo è un atto performativo concettuale dove poi logicamente si è creata una perversione del mercato finanziario che è amorale perché si basa solo sul profitto (tanto che oggi l’opera vale più di ieri e non ci interessa se è stata distrutta, anzi varrà ancor di più tra 10 anni). Ecco Banksy non ha alcuna colpa: non produce perversioni del mercato, ma è uno stigmatizzatore di evidenze”.
Infine tanti i dettagli per quell’assenza del corpo, per quell’identità misteriosa che ha generato il mito. “Il ghost artist non l’ha inventato Banksy, ma è nato come in tanti altri casi meno noti in un contesto di illegalità come autotutela. Poi la fortuna ha girato in maniera funzionale e lui ha capito che era l’unico meccanismo possibile per arrivare ad agire nel sistema sociale in maniera così ramificata: un po’ per tutelarsi ma soprattutto per poter lasciare che l’azione virale fosse sempre e solo quella dell’operazione e non quella dell’azione narcisistica, che è la grande malattia del presente. Lui lo ha sfidato e ha vinto. Anonimato che oggi tanti gli invidiano perché gli dà estrema libertà di essere un uomo famosissimo, potentissimo e ricchissimo e non avere nessuna rottura di coglioni perché quando passeggia per strada nessuno sa chi è”.
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