E se l’unica, reale, decisiva minaccia alla pace nel mondo fossero gli Stati Uniti d’America? Sembra scritto con il candore intonso ed idealista di un fanciullo il libro Breve storia dell’impero americano (Fazi). Invece è un penetrante e fluviale saggio geopolitico con una tesi lapalissiana e documentata elaborata dal pacifista ad oltranza, lo storico svizzero Daniele Ganser.

Il pendolo della storia insomma ha sempre il solito rintocco per gli Stati Uniti d’America: l’ora della guerra. Guerra ovunque, guerra sempre, guerra come reiterata soluzione per risolvere, più che i conflitti territoriali di prossimità, quelli scaturiti da veri e propri affari economico-finanziari da portare a termine lontani mille miglia dal suolo intonso statunitense. Quel vizietto di immischiarsi di continuo nelle questioni interne altrui non è mai – mettete via le bandierine dei democratici pro guerre buone e quelle dei repubblicani che fanno le guerra cattive (ma anche viceversa) – una questione di “democrazia da esportare” come decenni di progressismo sinistroide ci ha abituato a pensare obtorto collo. Gli Stati Uniti, dati alla mano e chiacchiere a zero, come spiega Ganser “dei 242 anni dalla sua istituzione come nazione il paese ne ha trascorsi solamente sedici senza guerre”. Altri dati, incontrovertibili, giusto per capire l’andazzo e l’impegno a prescindere dalla “democraticità” dei presidenti succeduti.

Gli Stati Uniti sono il paese con la più alta quantità di spese militari al mondo. Una stima può essere fatta dal primo dopoguerra quando il presidente Eisenhower, uno che di guerra ne aveva masticata parecchia in Europa in chiave antinazista, aveva messo in guardia nel suo discorso d’addio nel 1961 sullo strapotere dell’industria bellica statunitense e del suo tentativo di condizionare la politica statale in senso ampio, quindi oltre gli steccati partitici. Prendete carta e penna, allora: sul finire degli anni Cinquanta siamo a 50 miliardi di dollari; durante la guerra in Vietnam siamo sui 100 miliardi; con il primo mandato di Reagan eccoci a 200; poi nel 1986 a 300. L’escalation continua e proprio a ridosso degli attentati del 2001 eccoci a 316 miliardi; nel 2003 mentre gli Usa attaccano l’Iraq si raggiungono i 345; nel 2005 siamo a 475; nel 2006 arriviamo a 534; nel 2007 tocchiamo i 600; e poi ancora su su fino ai 649 miliardi del 2018, ai 716 del 2019, e ai 738 del 2020 (quando la Cina ne spende 250). Biden? Ancora non pervenuto, ma, dice Ganser, ha votato per 36 anni al Senato per ogni tipo di guerra immaginabile, negli otto anni da vice di Obama non ha lesinato a porre in calce la sua firma per diversi bombardamenti; infine appena dopo il suo insediamento presidenziale – febbraio 2021 – ha fatto sganciare ordigni su mezza Siria.

Ancora qualche dato, giusto per capirci. “Chi studia le fonti storiche riconosce che dopo il 1945 gli Usa hanno adoperato la violenza in modo palese o occulto” contro 22 paesi. Li riassumo qui: Grecia, Corea, Iran, Guatemala, Congo, Cuba, Vietnam, Indonesia, Cambogia, Laos, Cile, Grenada, Libia, Nicaragua, Panama, Kuwait, Sudan, Serbia, Afghanistan, Pakistan, Siria, Ucraina. Aggiungeteci le basi militari Nato in Europa e quelle più genericamente statunitensi e arriviamo a quasi 700 all’estero, 4mila in patria, composte da oltre 200mila effettivi tra cui (sorpresa) solo in Italia sono 11800 mentre fino a qualche mese fa prima della vergognosa resa ne aveva meno l’Afghanistan in guerra (10100).

Volete altri dati inoppugnabili? 42 tra i 100 maggiori gruppi industriali che producono armi fatturano negli Stati Uniti (57% del commercio del settore, quindi) e nella top five mondiale primo, secondo, terzo e quinto posto li occupano cinque imprese statunitensi (Lockheed Martin, Boeing, Reytheon, Northop Grumman). Insomma, quel ristretto circolo di pochissimi ricchi – come li definisce Ganser – a scapito dei tantissimi cittadini comuni e ignari di questo semplice e omicida meccanismo. Ovunque la si giri, quindi, gli Stati Uniti sembrano, anzi sono, il paese dove si produce e si arma la guerra fin già da metà Ottocento con prove tecniche contro i messicani a Sud e i nativi al proprio interno. Tradizione violenta e colonialista identica ai precedenti padroni espansivi europei che si allargavano in armi distruggendo e cancellando culture autoctone.

Molti ricordano come la Cia abbia rassettato con missili e bombe il proprio “cortile di casa” in Cile nel 1973, ma in pochi sanno come gli Usa hanno occupato e annesso le Hawaii come stato sul finire dell’Ottocento o hanno cacciato gli spagnoli dalle Filippine e poi schiacciato la resistenza interna ancora prima di fare il loro ingresso trionfale nella prima e seconda guerra mondiale. A tal proposito, e qui Ganser riapre un capitolo di analisi storica fin troppo sottovalutato, quando i copiosi prestiti di guerra (e tutto l’armamentario da trincea made in Usa) venduti alle potenze amiche della Triplice Intesa sembravano non rientrare come voce di spesa ecco l’“entrata in guerra” in Europa nel 1917. E se il pretesto/provocazione altrui si fatica a trovare (l’affondamento del Lusitania per la prima guerra; l’attacco a Pearl Harbour per la seconda) ecco che la stampa corre in aiuto e poi la propaganda martellante fa il resto (quanti echi con l’oggi, per diana).

Inciso su Pearl Harbour: Ganser argomenta con diverse fonti incontestabili come i messaggi degli attacchi giapponesi vennero anticipatamente decrittati dall’intelligence angloamericana ma che Roosevelt “lasciò fare”. Soluzioni a questo marasma senza fine? Forse la parte più debole anche se eticamente onesta e inappuntabile del libro (vedi la mindfulness, parbleu!). Semmai, manca un ragionamento sulla vera chiave di volta futura antimperialista: l’autodeterminazione dei popoli, quindi l’affermazione della singolarità di ogni singola cultura nazionale e paese, a prescindere da padrini militari e strozzini monetari/finanziari, senza cadere in ciechi estremismi da operetta. Del resto l’Italia non nacque così durante il Risorgimento? O non si può dire?

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