L’elemento di maggiore importanza, e anche il più inquietante, delle ultime elezioni amministrative non è certamente costituito – nonostante gli strombazzamenti dei giornaloni – dalla presunta fine dei populisti e dall’altrettanto presunta vittoria dei moderati, bensì dall’afflusso eccezionalmente basso alle urne, con percentuali striminzite mai verificatesi nella ultrasettantennale storia della Repubblica. Un segnale molto preoccupante perché indica la crescente e profonda disaffezione di settori di massa nei confronti delle procedure della democrazia rappresentativa e dei partiti.

Questi ultimi del resto si stanno da tempo autodepotenziando: il processo di autocastrazione cui si sono sottoposti, cedendo i poteri sostanziali di scelta ad altri soggetti ed esautorando le istanze rappresentative come il Parlamento e le assemblee locali, ha conosciuto, com’è noto, un salto di qualità notevole con la discesa in campo del deus ex machina Mario Draghi e la costituzione del suo governo che gode di un eccezionale sostegno sia dal punto di vista dei partiti sia da quello dell’opinione popolare per come essa è rilevata dai sondaggi.

Come confermato dalle ultime elezioni, tuttavia, questo sostegno non si traduce in un altrettanto vasto consenso nei confronti dei partiti che pure appoggiano Draghi sia apertamente (tutti tranne Fratelli d’Italia e Sinistra italiana), sia larvatamente (Fratelli d’Italia).

Del resto i partiti, al di là del comprensibile momentaneo sollievo provato ed espresso da Enrico Letta, sono consapevoli della propria crisi di prospettive e appaiono fortemente spaccati al loro interno. Nella Lega sta maturando uno scontro frontale tra l’ala del mojito e quella dei responsabili e potenti governatori del ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti; i cinquestelle continuano a perdere pezzi e lo stesso Pd appare diviso tra coloro che dicono di voler recuperare una prospettiva autonoma, e in qualche modo ancora a sinistra, e coloro che invece continuano ad auspicare la confluenza con moderati ed ultras draghiani in un centro sempre più privo di contenuti politici qualificanti.

Colpisce molto negativamente, anche nel dibattito post-elettorale, l’assenza dei temi di fondo che riguardano l’avvenire del Paese. Crescente disoccupazione, arroganza confindustriale, incidenti sul lavoro, permanere di discriminazioni e sfruttamento senza precedenti dei migranti, crescente povertà, prospettive internazionali ed europee, lotta al cambiamento climatico e al degrado ambientale, questione fiscale e misure contro la pandemia sono oggetto solo di qualche occasionale grido da parte dell’uno o dell’altro, magari mescolandosi con le stupefacenti imprese di Luca Morisi o le rivelazioni su parafascismo e mazzette di Fratelli d’Italia.

Con partiti del genere è inevitabile che gli elettori si sentano sempre meno coinvolti e stimolati, mentre crescono mobilitazione ed impegno su questioni specifiche ma di grande rilievo come l’eutanasia o la liberalizzazione delle cosiddette droghe leggere.

Fuori dai radar dell’opinione pubblica continuano invece a permanere le questioni più direttamente attinenti ai rapporti di classe, su cui dominano incontrastati Draghi e Confindustria, più che mai intenzionati a portare a termine il progetto di ristrutturazione della società italiana in modo del tutto conforme alle aspirazioni e ai dettati del capitale.

La questione fiscale, in particolare, vede una netta e incontrastata egemonia di queste forze, suscitando al più qualche stridulo lamento di Matteo Salvini che, dibattendosi e boccheggiando come una grossa trota presa all’amo, cerca disperatamente spazi di rappresentanza politica che gli consentano in qualche modo di fronteggiare la combattiva ed efficace concorrenza di Giorgia Meloni, attingendo ai serbatoi dell’evasione fiscale strutturata.

Come rileva con la consueta lucidità Alfonso Gianni sul manifesto, la questione fiscale – riproposta con forza anche a livello internazionale dalle rivelazioni sui Pandora Papers – dovrebbe invece vedere ben altro impegno, soprattutto da parte della sinistra. Si tratta infatti di reperire risorse essenziali per una transizione ecologica effettiva, per combattere la povertà dilagante, per salvaguardare i posti di lavoro oggi in pericolo dall’Alitalia alla Whirlpool alla Gkn a tante altre aziende piccole e grandi. Una patrimoniale e misure che colpiscano, anche a livello internazionale, i settori che hanno tratto e continuano a trarre spaventosi profitti dalla pandemia dovrebbero quindi costituire il minimo sindacale. Il problema, come rileva amaramente Gianni, è che la sinistra in Italia è ridotta al lumicino, come dimostra il disastroso risultato dei mille rivoli della penosa diaspora comunista, con qualche limitata eccezione tipo il discreto risultato del Partito comunista alle politiche parziali di Siena e di Roma o quello di Potere al popolo a Bologna. E tutto sommato negativo appare anche il risultato dei settori che hanno scelto di restare nel ventre del Pd nell’illusione di poterlo orientare verso posizioni più coerenti. Sarebbe ora di cambiare rotta, superando definitivamente narcisismi, settarismi ed opportunismi di ogni tipo.

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