Le elezioni comunali hanno fotografato lo stato di salute della democrazia rappresentativa della nostra penisola, evidenziando come questa sia in uno stato di crisi ancor peggiore rispetto a quello che, più o meno dieci anni fa, determinò l’ascesa del Movimento 5 stelle.

Non me ne vogliano a sinistra, ma parlare di vittorie e di fascismi è solo un maldestro tentativo di distogliere l’opinione pubblica dalla stanchezza e la disillusione che accompagna la maggioranza degli italiani. Un popolo che si sente schiacciato dall’assenza di una politica che li rappresenti e dalla prospettiva di un governo tecnico perenne.

Enrico Letta, che in queste ore si gode la vittoria di Pirro, non nasconde il problema della bassa affluenza, lanciando l’idea delle Agorà democratiche per una democrazia partecipativa, una sorta di copia e incolla di quello che il primo Movimento 5 stelle ha provato a portare avanti per poi abbandonarsi a giochi di palazzo e alle bramosie di chi ne ha preso il controllo.

Si va verso un periodo di larghe intese arroccate nel centro liberale (quel che chiamano centrosinistra in realtà di sinistra non ha nulla). Un modello che fino ad oggi ha la meglio sul centrodestra (che ha spostato l’asse verso una destra sconclusionata e in perenne contraddizione), che esce dalle elezioni asfaltata non solo dall’astensione, ma anche da un’inopinabile debolezza della classe dirigente che non solo non trova candidati all’altezza, ma che si presenta come un contenitore vuoto, che da tre anni a questa parte grida, urla e aggredisce, senza sviluppare alcun’idea o proposta che possa dare risposte ai cittadini. Un disco rotto basato sull’odio e la ricerca di un nemico costante. Oggi gli immigrati, ieri l’Europa, domani i gay e dopodomani chissà.

Cosa emerge? Piazze piene (con ritocco o senza), mediatizzazione di trend e di politici additati come star dello spettacolo, like e selfie a volontà ma urne vuote e gente che si gira dall’altra parte. La realtà del voto che si scontra contro la realtà virtuale. Le magnifiche immagini con profilo all’orizzonte e le dichiarazioni da statisti che però riscuotono meno interesse dei litigi di Uomini e donne e del Grande fratello.

La politica paga una totale assenza di idee e contenuti, una subalternità totale alla burocrazia che si cerca di colmare con una spettacolare “comunicazione politica” fatta di finte vittorie e di inesistenti (o gonfiati) risultati raggiunti. Che gli elettori hanno prontamente premiato standosene a casa.

Il grande perdente della sconfitta collettiva è l’ex guru dell’odio, oggi perlopiù “food blogger”, Matteo Salvini. Ha perso ovunque, pure a Varese (dove nell’ultima settimana era andato quattro volte), in cui la vittoria del centrosinistra con Galimberti rappresenta come dei leghisti non si fidi più nessuno, a partire dai territori dove si sono sviluppati e dovrebbero essere più forti.

La débâcle però non riguarda il solo Salvini, ma si estende anche a Giorgia Meloni, che contava di vincere a Roma per lanciarsi verso una leadership nazionale. Invece Giorgia, che proprio non ce la fa a rinnegare fascisti e fascismo, nonostante la grande spinta dai sondaggi (sulla cui validità e capacità di orientare si dovrebbe discutere) che “la danno” al 20% è crollata malamente raccogliendo, con il centrodestra unito, a malapena il consenso di un elettore romano su dieci per il suo candidato.

Il sovranismo nostrano a convenienza, fatto di sostegno incondizionato alla tecnocrazia draghiana e a leader esteri che in fondo vogliono fregarsi i soldi degli italiani (tipo Polonia e Ungheria), ha tolto la maschera e si sgonfia a velocità sostenuta, seguendo il trend già segnato in Europa dai loro simili. Questo spinge il centrodestra lontano dalle folli contraddizioni della sciagurata coppia Salvini-Meloni e verso posizioni popolari e liberali, ossia al centro. In gran silenzio l’unico partito di destra a non uscire con le ossa rotte da questa tornata elettorale è Forza Italia, che può contare ancora sull’85enne Berlusconi e su una classe dirigente radicata, seppur spesso in accezione negativa, sui territori.

Diventa in tal senso interessante capire se Forza Italia, Azione, Italia Viva, altri ex democristiani e una parte della Lega (quella pragmatica giorgettiana) possano lavorare alla formazione di un polo liberale (a cui in Europa aderisce Italia Viva), popolare (a cui in Europa aderisce Forza Italia) e soprattutto moderato, lontano dalle sparate a giorni alterni di Salvini e Meloni.

Carlo Calenda, con una delle sue smorfie a favor di telecamera, ha fatto capire che finché il Pd sarà in coalizione con i 5stelle le porte scorrevoli di Azione gireranno in un altro senso. Mentre Letta ha lodato le sinergie con il nuovo M5s di Conte e Di Maio, contando che questo possa ancora portare al suo mulino, quello di un nuovo Ulivo a guida Pd, l’acqua dei voti di protesta verso il sistema.

E se da una parte Damilano, candidato del centrodestra a Torino, sottolinea come il lato estremista della sua coalizione lo ha penalizzato e ha fatto allontanare i torinesi moderati dalle urne, il voto di cambiamento del M5s mal si concilia con l’attitudine sistemica del centrosinistra. Anzi, nell’altissimo tasso di astensionismo si trova anche la risposta dell’elettore 5stelle alle giravolte imposte da chi ha preso il controllo del partito.

In questo contesto è evidente che il Paese si trova davanti alla necessità di nuove proposte che possano stimolare gli astenuti. Se l’astensione verrà intercettata da proposte nuove e costruttive, si può pensare ad un futuro roseo, ma se il malcontento verrà intercettato da forze negative, con attitudine regressive e distruttive, allora il rischio che il nostro Paese viva periodi bui è molto concreto.

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