di Giovanni Papa

Ad essere ottimisti, questa potrebbe essere la volta buona in cui qualcuno si degna finalmente di analizzare un dato che sciaguratamente ci accompagna da anni in un atto, come quello del voto, che dovrebbe essere per chiunque l’espressione più alta di una democrazia matura: l’astensionismo.

Una sostanziale quanto veemente iattura che in queste amministrative si è fatta sentire con uno dei suoi massimi storici e che mai come ora sembra godere di un’ottima forma, garantita da politici che segnano il passo per non sapere ampliare la loro offerta del “dare”, scoperti ormai da tanti come quelli del “prendere”.

A nulla è servito il grido di allarme, volutamente ignorato da tutte le forze politiche, segnatamente espresso dalle persone comuni nelle varie contese regionali succedutesi negli ultimi due anni, che hanno inanellato un inverosimile filotto di “non votanti” da far impallidire alcune finte democrazie tristemente note in altri angoli del pianeta.

Ed è così che anche oggi si preferisce raccontare una vittoria mozzata da quella consapevolezza generale cosciente che quando il “partito dell’astensione” trionfa con questi numeri, ognuno dei contendenti si vede raddoppiato in percentuale il proprio peso specifico dovuto ai voti assoluti.

Ecco quindi ricrearsi sotto i nostri occhi, un ambiente ideale per l’incontrastato regno degli squali “capibastone” e avvoltoi “portatori di pacchetti di voto” che si vedono premiati ben oltre il loro “sforzo”, qualsiasi sia la forza politica di turno dove al momento sguazzano.

E dire che un Movimento in particolare uno spiraglio lo aveva pur aperto cinque anni fa.

L’esempio di Roma nelle elezioni del 2016, dove si registrò finalmente un’ottima percentuale di votanti, potevano essere l’inizio di un metodo per riuscire a raccogliere quella speranza che tanti delusi dalla politica avevano e hanno voglia di concedere a qualcuno.

Una speranza naufragata nel tempo con una energica “restaurazione”, che un nuovo corso ha deciso di apportare, anche lì senza dare alcun valore alle alte soglie di astensionismo interno che si registravano. Abbandonare la strada del coinvolgimento territoriale, peraltro ignorato anche dalle altre forze politiche, alla luce dei fatti sembra essere stata una strategia capestro alla quale solo “l’elite” del Movimento forse riuscirà a sopravvivere.

Dimenticare un percorso che in un decennio ha portato una forza elettorale a raccogliere il consenso di 11 milioni di persone, è stato il primo errore del M5S.

La supponenza di volere fare da soli o con pochi intimi, senza perseguire quella virtuosa “partecipazione del cittadino”, da sempre acclamata e troppo presto abbandonata, ha collocato il Movimento agli occhi dei suoi elettori come una invariante offerta data nei confronti di quegli stessi partiti, sul cui duro contrasto aveva costruito le sue fortune.

Gente brava e onesta, anche capace in molti dei suoi componenti, ma non in grado di includere. Tutto molto simile a quanto già c’era e c’è sempre stato.

Eliminare troppo precocemente la piattaforma Rousseau, anziché migliorarla per farla diventare maggiormente inclusiva e vincolante per i Portavoce, è stata la prima grande negazione di un cammino che fino a quel punto era di esempio per gli altri. Un passato disconosciuto e sacrificato su un altare di qualche vate, che anche se ragionevole, intelligente, arguto e preparato, sempre “Uno” resta.

Esattamente come per gli altri.

Oggi assistiamo alla certificazione che tutto ciò non è abbastanza. Partecipazione, condivisione e una sana alternanza che allontani al momento giusto semplici cittadini che governano dalle lusinghe del potere, evidentemente non è un vecchio metodo superato ma piuttosto un innovativo metodo che supera.

Rendersi conto di questo, per raccogliere il grido di dolore del 50% degli italiani, non è “non essere allineati” ma piuttosto essere visionari.

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