Cinema

Tre piani, si può amare il cinema passato di Nanni Moretti ma non sopportare una sola inquadratura del nuovo film?

Tratto dal libro dello scrittore israeliano Eshkol Nevo – ci fermiamo prima di qualunque impossibile confronto – primo film di Moretti tratto da plot altrui, Tre Piani ha un difetto basilare clamoroso che annebbia e depista anche il più coraggioso degli incondizionati adepti morettiani: più che profondamente tragico è banalmente lugubre

La polemica di Davide Turrini

Si può amare il cinema passato di Nanni Moretti e non sopportare una inquadratura che una di Tre Piani? Evidentemente, in Italia, no. Amico mio qui, amico mio là. Quello si offende. Quell’altro te la giura. Quello ti dice che “non sono mica andato a letto con tua moglie”. Per carità Nanni, per quel poco che crediamo di conoscerlo da lontano, sfiorandone i sacri golfini girocollo di lana, non fa così (altri, quasi tutti, sì), ma l’involontario fortino a sua difesa creato da tutto il paracinema romano-italiano per la sua ultima opera in Concorso a Cannes (con annesso scontro con la Palma d’Oro Titane) è di una stucchevolezza indigesta che, appunto, nemmeno l’imbarazzante inquadratura della Rohrwacher fantasma che sbuca al ralenti, quasi a chiusura di Tre Piani.

Tratto dal libro dello scrittore israeliano Eshkol Nevo – ci fermiamo prima di qualunque impossibile confronto – primo film di Moretti tratto da plot altrui, Tre Piani ha un difetto basilare clamoroso che annebbia e depista anche il più coraggioso degli incondizionati adepti morettiani: più che profondamente tragico è banalmente lugubre. Volessimo tralasciare che l’inventiva e la creatività a livello formale Moretti l’ha perduta strada facendo, briciola dopo briciola, e tra l’altro nemmeno ce n’era a fiotti, il problema qui in Tre Piani, da spettatori, di fronte ad ostacoli, incidenti, violenze, morti che colpiscono tre famiglie con prole di un palazzo borghese romano, è che Moretti regista con la macchina da presa, con la recitazione degli attori, con la messa in scena, con il montaggio in aiuto (il film talvolta si rifà e si rinnova proprio in post) non scava oltre un piano, quello del seminterrato.

Basterebbe l’originale semplicità dell’episodio Medici di Caro Diario (ma facciamo pure Caro diario tutto) per capire l’affondo intimo e capillare del tragico con pochi mezzi, con una manciata di intuizioni di stile. Invece ecco l’imbalsamazione di attori, atmosfera, storia in Tre Piani. Come se il senso del tragico dovessimo percepirlo aggrappandoci ai visi inespressivi di un cast volenteroso ma godardianamente inutile. Prendiamo la fissità quasi imperturbabile di Lucio/Scamarcio alle prese con modulazioni dell’anima che dovrebbero oscillare tra rabbia e sospetto verso un anziano vicino di casa possibile violentatore di sua figlia e un processo a suo carico per stupro di un’avvenente minorenne vicina di casa (nipote del nonnetto violentatore nel frattempo morto) da cui difendersi. Altro che tre piani, tutto avviene su un unico piano drammaturgico senza nemmeno una parvenza di inclinazione, con pomposa fierezza delle tinte televisive grigio nebbiose e una piattezza cinematografica da saggio didascalico di fine corso.

Così anche se l’intento fosse quello di un’omogeneizzazione del tragico in un unico blocco antropologico cultural condominiale, donne più resistenti ed uomini più deboli nella loro sicumera, sarebbe stata una sfida più stimolante non vestirli tutti uguali (il girocollo con o senza camicia sotto, con o senza jeans in abbinamento) e farli respirare con vita singolare e propria. Essendo poi Tre Piani suddiviso in tre storie parallele e intersecanti (giudice con moglie e figlio omicida; giovane coppia con figlia lasciata in custodia ai vicini anziani; giovane coppia con bimba neonata, lui sempre via per lavoro e lei che impazzisce), questione formalmente complicata per chi si affida a campi e controcampi come se piovesse, la sintesi generale morettiana è ottenuta saltando più piani temporali, di cinque anni in cinque anni, affidandosi al pallore catatonico di tre bordoni narrativi indistinguibili l’uno dall’altro e puntellandosi su personaggi monodimensonali, involuti, a cui viene pettinato il ciuffo di qua o di la per mostrare che è passato del tempo.

Infine abbandonata oramai da parecchi anni e film (Habemus Papam) la sottile ironia morettiana sull’umano che ci faceva “digerire” la tragedia (vedi La stanza del figlio) il Moretti attore si ritaglia un ruolo disumano di giudice che con pervicace cinismo odia il proprio figlio (la moglie, la solita golfinata sciupatina Buy, invece lo difende) reo ubriaco di aver investito e ucciso una persona: identità moralmente discutibile, vanamente retorica, politicamente insopportabile, lontana anni luce dalla brillante arroganza del Moretti attore a cui ci aveva abituati negli anni (perfino quando c’era ma stava un po’ nell’angolo, ancora Habemus papam). Chiosa: il video di lancio del film sul profilo Instagram di Moretti era ben più curioso e stimolante del film stesso.

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