Documentari complottisti con premi Nobel e Palme d’oro, retorica del dramma accolta da ululati di disapprovazione e al grido venduti, delicati drammi intimisti con le silhouette di chi si lancia dalle Torri Gemelle per sfuggire agli incendi. Ecco vent’anni, anzi nemmeno dieci, di cinema sull’11 settembre 2001. La scossa vera, tra l’altro, la dà il premio Nobel Dario Fo che ad un certo punto, dopo una ventina di minuti del documentario Zero – Inchiesta sull’11 settembre (2007) si mette a discettare di fusione dell’acciaio delle torri, di superstiti che attraversano le fiamme dopo il crash dei boeing della United Airlines, di cose “strane” che non tornano. Alle sue spalle, Fo ha disegni fatti a pennarello su una lavagna bianca, marchio di fabbrica di molte sue celebri rappresentazioni teatrali di denuncia contro il potere. Insomma, il segno si legge: se ve lo dico io che ho fatto uno spettacolo su Piazza Fontana dovete fidarvi. Ed è solo uno stralcio dell’opera di controinformazione diretta da Franco Fracassi e Francesco Trento.

Ovvero quando gli attentati alle Twin Towers erano ancora cinematograficamente e culturalmente la madre di tutti i complotti. E il cinema impegnato, di sinistra, quello che andava a scavare tra le informazioni non raccontate, rispondeva così, da carboneria mazziniana. Chissà a rivederlo oggi in quanti darebbero del matto a Fo. Del resto un altro “eroe” della controinformazione dell’epoca, il cineasta, pardon documentarista, Michael Moore, se oggi lo vedessimo in strada forse gli lasceremmo due monetine nel cappello da baseball. Nel 2004 Moore vinceva a mani basse, premiato nientemeno che dal presidente di giuria Quentin Tarantino, la Palma d’Oro al Festival di Cannes con Farhenheit 9/11. In quel momento bastava mostrare Bush Jr. seduto su una seggiolina di una scuola di Sarasota mentre imperturbabile gli viene sussurrata la notizia degli attentati all’orecchio. Una spruzzatina di dileggio, l’accusa di fare gli interessi della famiglia Bin Laden prima di quelli americani, la deduzione tale per cui l’amministrazione Bush ha imposto in maniera autoritaria il Patriot Act inscenando un clima di paura attraverso i mass media. Tradizione nobile, quella a cui si rifaceva Moore con il suo documentario. I thriller sulla paranoia antisistema anni settanta alla Tre giorni del Condor o alla Perché un assassino. La versione ufficiale, soprattutto se comunicata dalla destra, è contestabile. Il cinema che si sostituisce al giornalismo, che sfuma i confini tra reportage e documentario. E gli attentati dell’11 settembre 2001 sono il nuovo big bang.

Se nel film c’è un riferimento all’11 settembre, probabile ci sia una prova, un dettaglio, una traccia che era sfuggita ai giornali. Nemmeno un anno dopo nel 2002, tra l’altro, giunge al Festival di Venezia, 11 settembre 2001. Opera in undici episodi con la co-regia di undici registi provenienti da differenti nazioni (un italiano disponibile pare non ci fosse). Tra Iñarritu e Imamura, tra Lelouch e Ouédraogo, spuntano perfino due irriducibili estremisti di sinistra. Ken Loach ricorda che esiste anche un altro 11 settembre che ha fatto più morti e ha ucciso un’ideale di eguaglianza e democrazia come l’11 settembre 1973 quando Pinochet bombardò la Moneda e Allende si suicidò.

Sean Penn, nientemeno nel periodo d’oro anti Bush (anche per lui oggi monetina nel cappellino) mostra l’anziano Ernest Borgnine che ha vissuto per una vita in una casa all’ombra delle Twin Towers e quando i Boeing le tirano giù finalmente vede la luce e sorride. Apriti cielo. Come si fa a scherzare con tutte quelle vittime? A botta calda tutto era lecito e non c’era bisogno del “fate girare”. Oggi invece va al contrario. Censura preventiva, talvolta autocensura. Guarda Spike Lee che nelle prossime ore avrebbe dovuto vedere in onda sulla HBO il suo episodio di NYC Epicenters 9/11. Lee che proprio un paria non è ancora diventato ha rimesso mano all’ultimo istante al suo montato perché secondo alcune voci critiche della produzione aveva dato troppo spazio ad un gruppo complottista che mette in dubbio ancora oggi diversi dettagli riguardanti lo squagliarsi rapido delle torri.

Da Fo a Lee il passo non è nemmeno breve. Dicono la stessa cosa. Nel 2007 si poteva dire. Nel 2021 suona male. N’est pas cinema engagé. Au contraire: il subbuglio, il mal di pancia provocato da un altro storico complottista come Oliver Stone (JFK avete presente no?) nelle vesti inattese della retorica dell’eroe patrio, anzi dei tre pompieri eroi. Lui porta al Festival di Venezia World Trade Center e lo accolgono a pernacchie. In sala stampa risuona ancora quel “bloody propaganda movie” che gli piove in testa come fosse un repubblicano qualunque. Siamo ancora vicini temporalmente alla tragedia, ma è ora di riscrivere la storia lassù sopra ad uno di quegli aerei dirottati.

Quello che si schianta su un campo della Pennsylvania. Il regista è l’inglese Paul Greengrass, uno che filma macchina a mano tremolante anche l’esecuzione di Glenn Gould delle Variazioni Goldberg. Insomma, il film si svolge in tempo reale, o quasi, risalendo alle testimonianze di parenti delle vittime, contattati all’epoca con rudimentali cellulari/satellitari dai loro cari durante il dirottamento. Gioco facile sfregare la lampada dell’emozione e della commozione. United 93 nulla aggiunge a livello documentaristico, perché di ricostruzione il più aderente possibile ai fatti accaduti si tratta, ma fa grondare il ricordo di lacrime. Va meglio invece a chi il riferimento agli attentati dell’11 settembre lo fa in maniera contestuale ma defilata rispetto alla trama dell’opera. La città di New York ferita ritratta ne La 25esima ora di Spike Lee (2002) riecheggia in diverse battute, oltre i vetri degli appartamenti, in campo lungo, nei fasci di luce sostitutivi delle torri gemelle nei titoli di testa. Insomma, lo squarcio nemmeno dodici mesi dopo non ha bisogno di analisi e controanalisi, perché c’è, si vede, si mostra, e se non si vede, si percepisce profondo, traumatico, incancellabile fuori campo.

Ma è soprattutto nel delicato affresco di un rapporto padre-figlio in Molto forte, incredibilmente vicino che la tragedia è come si liquefacesse in un flusso unico tra pubblico e privato in quel nastro della segreteria telefonica con la voce del padre intrappolato in una delle torri del WTC che il piccolo Oskar nasconde e scambia con uno vuoto per non far vivere il trauma alla madre e allontanare il momento dell’elaborazione del lutto. Il gioco si prolungherà ancora, diramandosi tra chiavi misteriose e tanti signori e signore Black da rintracciare. Fino a quando il gioco finisce, gli omini neri non si lanciano più nel vuoto delle torri gemelle poco prima che queste si sbriciolino, e Oskar ricomporrà l’eterno legame di vicinanza con il padre defunto l’11 settembre 2001.