Per Ali Soufan, ogni 11 settembre seguito all’attacco del 2001 rappresenta il ricordo di un punto di svolta della sua vita. Quando 19 dirottatori fedeli al fondatore di al-Qaeda, Osama bin Laden, hanno colpito il cuore dell’America, nel più grave attentato della sua storia, il fondatore del think tank The Soufan Center era un agente speciale del Fbi appena 30enne, un’eccellenza nella lotta al terrorismo grazie anche alle sue origini libanesi che gli hanno permesso più di altri di entrare nella testa dei jihadisti catturati dalle agenzie Usa. Era l’uomo che più di tutti si è avvicinato a colui che, presto, si sarebbe fatto conoscere al mondo come lo Sceicco del Terrore. Quell’11 settembre, dentro le Torri Gemelle, ha perso la vita anche il suo maestro, l’agente speciale John O’Neill. Quando si è poi scoperto che la Cia aveva nascosto al Bureau informazioni che avrebbero permesso di sventare l’attacco di al-Qaeda e ha visto con i suoi occhi l’utilizzo delle “tecniche rafforzate d’interrogatorio”, come le definiva l’Agenzia, nient’altro che torture ripetute nei confronti di sospetti terroristi, Soufan ha deciso di abbandonare la carriera nel Fbi. La sua storia è stata resa celebre dal libro The Looming Tower del Premio Pulitzer Lawrence Wright e dall’omonima serie prodotta da Amazon. Oggi, a 20 anni dall’attentato che ha cambiato per sempre la sua vita e il futuro dell’America, gli Usa lasciano l’Afghanistan in mano ai Taliban che lo governavano prima dell’intervento armato, gli stessi che hanno protetto bin Laden mentre Washington gli dava la caccia.

La storia ci ha raccontato che uno dei motivi dietro al successo degli attentati dell’11 settembre è stata la mancanza di comunicazione tra le agenzie americane. La guerra in Afghanistan segna la fine di quel capitolo lungo 20 anni. Guardando indietro nel tempo, cosa vede oggi?

Vedo che abbiamo perso la guerra in Afghanistan quando abbiamo invaso l’Iraq. Abbiamo trasferito risorse militari, politiche e finanziarie altrove proprio quando erano più necessarie in Afghanistan. La verità è che non abbiamo mai avuto delle vere strategie, non abbiamo compreso posti come l’Afghanistan. Gli Stati Uniti tendono a ricorrere eccessivamente alle forze militari per combattere il terrorismo, ma serve una strategia onnicomprensiva. Siamo tornati al punto di partenza, anzi la situazione oggi è ancora più instabile dei mesi precedenti all’11 settembre.

Le agenzie hanno imparato la lezione? È cambiato qualcosa dopo gli attacchi o riscontra gli stessi problemi?

A livello tattico e operativo, le agenzie hanno imparato a condividere informazioni e a cooperare. A livello strategico, in 20 anni gli Stati Uniti non si sono mai occupati veramente dell’ideologia che sta alla base dei gruppi jihadisti. Eravamo così concentrati sulla guerra che abbiamo ignorato i fattori economici, politici, culturali e sociali che alla fine permettono ai movimenti jihadisti di sopravvivere nonostante la pressione esercitata dall’America. Le condizioni che hanno permesso a quei tragici attacchi di avere successo esistono ancora come allora, sia in Afghanistan che in molte altre aree del mondo.

Nella nuova edizione del suo libro The Black Banners – Declassified lei mostra le prove di numerose torture commesse dagli Usa su sospetti terroristi. Episodi come Abu Ghraib o le esecuzioni di massa commesse dai contractor in Iraq hanno alimentato la propaganda jihadista. Questo ritiro definitivo la indebolirà? Come faranno Isis e al-Qaeda a usare la teoria dell’invasore? Che altri argomenti useranno?

La presa dell’Afghanistan da parte dei Taliban è una conquista per il jihadismo globale. Viste le durature relazioni tra Taliban e al-Qaeda, per quest’ultima si apriranno numerose opportunità per riunirsi nella sua storica base operativa. Sia Isis che al-Qaeda cercano di ricreare una roccaforte territoriale in Afghanistan. Da una prospettiva globale di antiterrorismo, la preoccupazione è data dal fatto che il Paese rappresenta un’opportunità per diversi gruppi terroristici di trovare una base operativa e questo alimenterà ancor di più la loro propaganda. Quella dell’invasore è solo una delle loro narrative, ne hanno altre da poter usare.

Come è cambiata e come cambierà la guerra al terrorismo? Com’è cambiato l’approccio della popolazione Usa alla guerra al terrorismo? È oggi più facile per loro accettare una sconfitta come questa?

Stiamo assistendo all’inizio di una fase differente per questi movimenti. Un importante cambiamento nei movimenti salafiti-jihadisti è stato il passaggio ad affiliati regionali inseriti nelle dinamiche e nei conflitti locali più che nel loro nucleo operativo centralizzato. Le condizioni geopolitiche odierne, specialmente in Medio Oriente, Sahel e Asia Meridionale favoriscono gli sforzi di gruppi localizzati. Così l’attenzione si allontana inevitabilmente dal “nemico lontano”, ossia gli Usa.

Sembra che con il ritiro dall’Afghanistan sia finita l’era dell’interventismo americano, dei boots on the ground. In che modo Washington proverà a mantenere la sua leadership mondiale?

Il modo in cui ci siamo ritirati dall’Afghanistan ha influenzato negativamente le relazioni con alleati chiave. Questa scelta scelta è arrivata con l’amministrazione Trump, facendo arrabbiare molti dei nostri alleati. Per mantenere la leadership è necessario dare l’opportunità ai nostri diplomatici di ricostruire quelle relazioni, così da non permettere a queste spaccature di avere delle conseguenze in futuro.

Pensa che con questa strategia non interventista vedremo meno attacchi terroristici negli Stati Uniti e in Europa? Obama, Trump e Biden hanno spiegato che dopo la morte di Bin Laden la missione americana era compiuta, svelando che dietro non c’era alcuna strategia di nation building alle spalle. Quindi le chiedo: perché siamo rimasti altri 10 anni in Afghanistan? Nell’ultimo decennio i talebani hanno ripreso progressivamente potere nel Paese e non c’è stato un lavoro sufficiente per opporsi. Non le pare l’ultimo tradimento di fronte alle vittime dell’undici settembre?

Forse il modo migliore per rispondere a queste domande è il seguente: la realtà è che non abbiamo mai avuto una strategia complessiva sull’Afghanistan. Ci siamo concentrati sull’uso della forza militare, ma che dire delle strategie diplomatiche e politiche? Abbiamo il miglior esercito al mondo, ma un esercito può solo creare lo spazio per l’ingresso di politici e diplomatici alla ricerca di soluzioni politiche di lungo termine. E’ qui che abbiamo veramente fallito.

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