È stato sentito nel maxi-processo “Gotha” contro le cosche di Reggio Calabria dove la Direzione distrettuale antimafia lo ha interrogato anche su altre delicatissime inchieste. A febbraio e marzo, la Dda di Catanzaro lo ha chiamato due volte a testimoniare nel maxi-processo “Rinascita-Scott” contro la cosca Mancuso e i colletti bianchi del Vibonese. Appena venti giorni fa, invece, è stato convocato davanti al Tribunale di Crotone per essere sentito nel processo “Malapianta” che vede alla sbarra i clan di Cutro. Nonostante siano passati 14 anni da quando il boss Luigi Bonaventura è diventato un collaboratore di giustizia, per la Dda di Catanzaro i suoi familiari sono ancora in pericolo e per questo ha chiesto la proroga del loro programma di protezione. La Dna, diretta dal procuratore Federico Cafiero De Raho, la pensa allo stesso modo e ad aprile si è accodata al parere della Procura guidata da Nicola Gratteri. Meno di un mese, però, e a maggio il ministero dell’Interno ha disposto la revoca del programma speciale di protezione per i familiari del pentito, un tempo esponente di spicco della cosca Vrenna, la più importante famiglia di ‘ndrangheta di Crotone.

Il 7 agosto il Tar del Lazio ha sospeso la revoca accogliendo il ricorso presentato dall’avvocato Enrico Morcavallo e ha fissato l’udienza del 6 settembre per trattare la questione nel merito. Nel frattempo, nonostante la sospensiva dei giudici amministrativi, Bonaventura e la sua famiglia denunciano di non aver ricevuto il sussidio di agosto. Una situazione pesante per il pentito di ‘ndrangheta, ma soprattutto per i parenti che lo hanno seguito: sette persone, tutte incensurate, di cui tre malati e un minorenne. Una storia che si sta consumando nelle Marche, la stessa regione dove, nel 2018, il giorno di Natale, in pieno centro a Pesaro, mentre era sotto protezione, è stato ammazzato Marcello Bruzzese, di origini calabresi e fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Bruzzese di Rizziconi.

“A dicembre saranno tre anni dall’omicidio Bruzzese e nessuno sa niente. Tutto tace. Quando si parlerà di ‘ndrangheta nelle Marche vedremo che questa regione è messa peggio della Lombardia e dell’Emilia Romagna”. Luigi Bonaventura è un fiume in piena: si sente abbandonato da quello Stato che lui ha aiutato nella lotta alle cosche calabresi. Uscito dal programma di protezione nel 2014, il collaboratore lamenta che lo stesso sta avvenendo con la sua famiglia che già vive tra mille difficoltà a causa della sua scelta: “Ho collaborato con 14 Procure ma i miei figli vanno a scuola con il loro cognome originale. In pratica la protezione consiste nel prestito di una casa e in un sussidio che per tre persone adesso è arrivato a 1.400 euro. Si che questo sussidio sia un contributo o lo stipendio dei pentiti – dice – Non è così, ci ripaga di tutto quello che non possiamo fare. Ho scontato la mia pena ma adesso io non posso lavorare perché dovrei farlo con il mio nome. Per me è impossibile trovare un impiego. Siamo due nuclei familiari con un invalido al 100%”.

La situazione, lamenta Bonaventura, si è aggravata negli ultimi mesi quando il ministero dell’Interno ha revocato la protezione ai familiari: “Loro – spiega il collaboratore – motivano la revoca con il fatto che mia moglie ha rifiutato il trasferimento. Ma non è così. Nel verbale di comunicazione c’è scritto chiaramente che mia moglie non ha rifiutato il trasferimento. Mia moglie ha detto solamente che ne avrebbe parlato con gli altri familiari. È una trappola”. Una parola, questa, che Bonaventura ha utilizzato anche il 3 agosto scorso quando è stato ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal senatore Nicola Morra, secondo cui “il quadro è grottesco”.

Il perché lo ha spiegato lo stesso collaboratore di giustizia a tutti i componenti dell’Antimafia ai quali ha parlato di “trasferimento trappola”. In sostanza – stando al suo racconto – alla famiglia del pentito è stato proposto di trasferirsi in un’altra provincia ma “gli stessi Nop – ha affermato durante l’audizione – ammettono che le Marche non sono un territorio adatto a noi. È chiaro che ci sono delle difficoltà per il programma di protezione. Se mia moglie avesse accettato subito le Marche, avrebbe significato che saremmo potuti morire in una provincia non sicura”. Paola Emmolo, la moglie del pentito, quindi, non è un affiliato o un criminale redento, ma una persona che ha denunciato le cosche: “Perché ci sono collaboratori che hanno rifiutato il trasferimento e sono sotto programma? – ha detto Bonaventura – Potrei fare anche i nomi e cognomi di tanti. Io non sto chiedendo che a queste persone venga revocato il programma, fatta eccezione per chi ha commesso reati, sto cercando di farvi vedere che c’è un serio squilibrio. Io me la sono fatta tutta la galera. Io non vi sto chiedendo compassione per me, ma sto dicendo di aiutare questa famiglia”.

Davanti alla Commissione antimafia, il collaboratore di giustizia ha letto uno stralcio della revoca disposta dal Servizio centrale di protezione. Nel provvedimento c’è scritto che “la Procura della Repubblica di Catanzaro Direzione distrettuale antimafia con nota del 6 aprile 2021, ha confermato i pregressi pareri volti a sostenere la proroga del programma speciale di protezione sostenendo che la collaborazione di Bonaventura Luigi, pur non essendo titolare di un programma di protezione e pur datata nel tempo, risulta ancora utile per ricostruire i profili criminali delle zone del Crotonese. Inoltre lo stesso sarà ancora impegnato nell’ambito dei procedimenti che riguardano i contrasti tra le cosche nella città di Crotone. La medesima autorità giudiziaria, dopo la premessa sull’importanza delle dichiarazioni rese dal Bonaventura, ha evidenziato come i pericoli per l’incolumità dei suoi familiari siano ancora sussistenti proprio in considerazione dei futuri impegni processuali del Bonaventura”.

Ragioni condivise anche dalla Direzione nazionale antimafia che, con una nota del 28 aprile 2021, “ha espresso parere favorevole alla proroga del programma speciale di protezione adottato nei confronti dei familiari di Bonaventura Luigi”. Il Servizio centrale di protezione ha però revocato il programma a tutti i congiunti perché la moglie ha “rifiutato – è scritto nel provvedimento del ministero dell’Interno – il trasferimento in altre località”. Una ricostruzione che, in un verbale sottoscritto, la Emmolo reputa non vera. Agli agenti del Nucleo di operativo di protezione che si erano recati per notificarle il trasferimento, la moglie dell’ex boss ha dichiarato: “Prendo atto della comunicazione, riservandomi di comunicare le mie intenzioni dopo un consulto con i miei familiari”.

Anche lei è stata sentita dalla Commissione parlamentare antimafia: “Resta solo il mio rammarico per tutta questa situazione – ha detto – Mi sento un cattivo esempio nel senso che chi denuncia fa la mia fine, come quella di tante altre donne. Mi sento un cattivo esempio per la società per colpa di un sistema di protezione che non funziona. Io non ho mai chiesto nulla se non perché ho fatto questa scelta: ho denunciato e ho portato mio marito alla collaborazione. L’ho fatto perché era giusto farlo senza nessun altro fine, nessun altro scopo. Però trovarsi qui per lottare per la mia vita e per la vita dei miei figli, di mia madre e dei miei fratelli, che sono anche loro dei denuncianti, io non lo trovo giusto. Qualcuno si dovrebbe mettere la mano sulla coscienza”.

Il provvedimento di revoca del programma speciale di protezione è stato disposto dalla Commissione centrale di protezione, guidata dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni. Contattato telefonicamente da Ilfattoquotidiano.it, l’esponente della Lega non ha inteso rispondere: “Sono tenuto al riserbo per disposizioni di legge – è l’unico commento di Molteni – La vicenda ovviamente è nota. Purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, su questo tema non posso rilasciare dichiarazioni”. E il 6 settembre il Tar del Lazio dovrà decidere se i pericoli per l’incolumità dei familiari di Bonaventura sono “ancora sussistenti”, come ritengono la Procura di Catanzaro e la Dna, o se invece i parenti del pentito possono stare tranquilli che la ‘ndrangheta si sia dimenticata di loro.

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